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I Crimi e il Teatro Mazzini

Crimi, (don) Gaetano (1808-1874). Nel 1826 va ad Atene a studiare greco e latino, poi sposa Laura Aleotti, figlia di un marionettista ed inizia la sua attività di puparo. Nel 1935 apre il suo primo teatro in piazza S. Filippo (poi piazza Mazzini). E’ collaborato da Giovanni Grasso e dalla sorella di questi, Santa. Il suo teatro ha poi diverse sedi, da Via Castello Ursino, a casa Bruno in Piazza del Carmine, quindi in casa Fernandez nella Via Lincoln (oggi via A. di Sangiuliano). Poi si sposta in casa Rizzari e dopo in Via Montesano (angolo con Via Caff), in un teatro chiamato Parnaso (1863) e che nel 1867 trasferì in Via Leonardi. Il suo cavallo di battaglia era la Storia greca, con le “marionette ignude” (non armate) e conquista subito un pubblico di studenti e di ogni ceto sociale. Nel 1869 mette in scena La Passione di Cristo(u mottoriu), facendo recitare alcuni studenti universitari di lettere classiche; realizza cosi l’opera dei pupi con personaggi viventi. Il successo lo porta a mettere in scena grandi spettacoli come la Gerusalemme Liberata. E’ maestro di Giovanni Cantone e di Raffaele Trombetta. Si sposa per ben tre volte; infatti, dopo Laura Aleotti, sposa Carolina Giannotta (nel 1846) e poi Agata Versaglio (nel 1859). Dalle tre mogli ha ben 26 figli, di cui cinque seguono le sue orme; molti figli avuti con le prime mogli morirono di colera (1854).
Il figlio don Carmelo (Càrminu, 1845-1913), dopo aver gestito, assieme ai fratelli, il teatro Roma, inaugurato nel 1873, si trasferisce a Paternò (1895) e poi a Vittoria; il proprio figlio Domenico vince, nel 1931, il terzo premio nella disfida regionale dei pupi siciliani. Francesco (1851-1897), figlio di Gaetano, dopo avere lavorato nel teatro del padre a fare Orlando “vivente”, collabora con i fratelli nel teatro Roma, che ben presto lascia per girare i paesi della provincia (teatro nomade) e muore ad appena 46 anni.

Sempre tra i figli di don Gaetano, Giuseppe (1854-1937), lavora con vari marionettisti nel nord Italia, quindi nel 1883 è a Siracusa, nel 1900 a Caltagirone e poi a Lentini. Lavora anche con i fratelli nel teatro Roma. Quindi si dedica alla rielaborazione dei testi paterni che esulano dal filone cavalleresco. Ci lascia Lo sbarco di Garibaldila presa di Roma, Il Vespro Siciliano, oltre ai vecchi Sansone e Dalila e La guerra di Troia.

Clementina (1864-1906), altra figlia di Gaetano, dopo aver lavorato con i fratelli, sposa nel 1883 il puparo Raffaele Trombetta e apre il teatro Mazzini. Dal 1899 al 1914 lavorano al teatro Dante.

Maria, altra figlia, dopo avere collaborato con i fratelli nella conduzione del teatro Roma, riaprì nel 1978 il teatrino di vico San Cristoforo, già gestito per qualche anno prima dal fratello Francesco.

L’ultima pupara dei figli di don Gaetano, Nazzarena (1856-1928?) , dopo aver lavorato anch’essa al teatro Roma, sposa il puparo Giovanni Cantone e insieme (fine 1800) lavorano al teatro Ameglio di via Ventimiglia.

Maria Crimi (Marietta, 1866-1923), figlia di Carmelo, con l’aiuto del marito, Alessandro Librizzi, e del figlio Giuseppe dopo, continua l’attività di marionettisti-pupari a Paternò (1910-1923).

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Sul famoso tenore Giulio Crimi, nato a Paternò nel 1885, si noti come tra le recensioni critiche (in Paternogenius) risaltino i nomi di Nino e Nuccia Caserta Librizzi.

La musica era parte del patrimonio familiare dei Crimi. Prima di dedicarsi al teatro dei pupi (di cui si dovrà indagare il modo in cui la Chanson de Roland era un metodo per cantare le gesta di eroi rivoluzionari che sottendevano il Risorgimento di Mazzini e Garibaldi, come si legge tra le righe del saggio di Valentina Venturini, dal quale, con un rimando alla trascrizione delle Memorie scritte dal figlio di Gaetano, Giuseppe, apprendiamo che “il Crimi è diverso per formazione dagli altri pupari: «Gaetano Crimi nato in Licata l’anno 1808 il 25 dicembre, dal maestro di musica e professore di violino sig. Diego, trovavasi sin dal 1826 in Atene a studiare lingua greca e latina, dove in otto anni aveva tradotto in italiano la storia di Alessandro Magno, la storia greca, il Dramoro di Medina, e molti altri scritti» (Memorie di Giuseppe Crimi scritte intorno al 1924, in Ettore Li Gotti, Il teatro dei pupi, Firenze, Sansoni, 1957, pp. 161-167, la cit. è a p. 164).

Un punto da chiarire è l’infondatezza della storiografia e della critica che ha etichettato come inadeguata la consapevolezza dei meridionali per poter sostenere lotte di emancipazione. Luoghi intellettualmente attivi come le accademie diffuse in quegli anni in Sicilia, distinte e separate dall’università, dimostrano una vita intellettuale dinamica e intensa, oltretutto discretamente distaccata dal controllo borbonico, a causa del centralismo napoletano della corte del re. Specialmente Catania, ancor meno sotto controllo di Palermo, ha saputo creare contesti (tra questi, l’Accademia degli Etnei) e giornali (Stesicoro) libere abbastanza da far passare contenuti rilevanti, come le opere di Foscolo. Ed anche la cultura popolare non era così da trascurare. I pupari, in particolare, specie i più colti, ebbero un ruolo di trasmissione tra i dotti del tempo e i ceti popolari, usando la Chanson de Roland come metafora per gesta eroiche contro i Borboni oppressori, reggendo consapevolmente la causa risorgimentale di Mazzini e Garibaldi.

In quest’epoca di revisionismo con tendenze neo-aristocratiche, che il popolo inconsapevole digerisce tra le pieghe della propaganda dei talk show televisivi, si sente talora dire che al tempo dei Borboni si stava meglio: il che può essere anche vero per chi faceva parte dell’aristocrazia del tempo, che esercitò un potere arbitrario e discrezionale fino all’abolizione del sistema feudale con la costituzione del 1812 ed anche dopo, perché quella costituzione formale non fu mai attuata. Il popolo non aveva alcun diritto e, a differenza dell’Italia settentrionale, non c’era nemmeno la possibilità della mezzadria: per cui i braccianti erano sostanzialmente dei servi della gleba, che al mattino venivano raccolti nelle piazze dei paesi per andare a lavorare nei campi, e al tramonto venivano riportati con i carri alla piazza. Impossibile protestare, perché gli scagnozzi del potere, i cosiddetti “camperi”, potevano picchiarli e persino ucciderli senza che questo potesse per loro generare alcun problema. Per un’analisi del sistema borbonico, si veda ad esempio Vincenzo Orlando, La rivoluzione antiborbonica di Messina del 1848.

Di fronte alle tante aspettative e illusioni che il popolo siciliano aveva nutrito al richiamo delle speranze che venivano dalle ide di Mazzini e dell’azione di Garibaldi. Ma poi gli eventi precipitarono: si trattava di guerra, e la guerra non è mai lieve. I fatti di Bronte sono una pagina dolorosa di quel momento. Gli accordi tra lo Stato Pontificio e i Francesi, con l’obbedienza di Garibaldi e l’opposizione di Mazzini, unica, ferma, distaccata ma anche impotente, sono state terribile delusione dell’utopia.

Un altro punto va trattato, in ordine al pregiudizio che la parte principale della storiografia ha impresso sulla cultura popolare siciliana e meridionale in generale.

L’affermazione che il Mezzogiorno non aveva una cultura adeguata a supportare la rivoluzione è oltre che ingiusta, falsa: perché il popolo appoggiò in larga misura le idee di Mazzini e l’azione di Garibaldi, anche se certamente alcuni furono trattenuti e condizionati dal potere dei baroni locali fedeli ai padroni (i Borbone) e allo Stato Pontificio (come nel caso dei fatti di Bronte): ma fu piuttosto la presenza dei rinforzi francesi a mutare un quadro che si saebbe altrimenti sgretolato in favore delle camicie rosse.

La posizione della storiografia ufficiale è stata comunque recisa, anche quando a chiosarla sono stati i più autorevoli tra gli storici: persino Gramsci cade in questo stereotipo. In Favola e Verità dei Pupi Siciliani di Sebastiano Lo Nigro (conferenza tenuta a Catania il 4 maggio 1976, pubblicata in LaresTrimestrale di Studi Demoetnoantropologici, anno LXII n.2 – Aprile – Giugno 1996, Leo S. Olschki ed., Firenze, e riportata in Leonardo Sciascia web), troviamo questo emblematico passaggio: «ha acutamente osservato Antonio Gramsci nelle sue penetranti note sul Risorgimento italiano: “In assenza di una sua letteratura “moderna” alcuni strati del popolo minuto hanno soddisfatto in vari modi le esigenze intellettuali e artistiche che pur esistono, sia pure in forma elementare e incondita: diffusione del romanzo cavalleresco medievale Reali di FranciaGuerino detto il Meschino, ecc. specialmente nell’Italia meridionale e nelle montagne” (Antonio Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Torino, Einaudi, 1996, p.107).

C’è da dire che Gramsci si mostrava più informato dei maggi toscani di argomento epico-cavalleresco e agiografico, mentre ignorava del tutto l’esistenza del teatro dei pupi siciliani, e la cosa si spiega col carattere più chiuso e arretrato della cultura tradizionale del Meridione. Ma l’accostamento delle due aree culturali isolate dell’Appennino tosco-emiliano e del Meridione ci appare pertinente ed acuto, anche se resta da vedere quali siano i caratteri strutturali e funzionali dei maggi toscani, che sono recitati cantando da personaggi vivi sulla base di un testo poetico in quartine di ottonari, rispetto ai più rozzi scenari o copioni dell’opera sui pupi siciliani che offrono all’oprante solo una traccia generica.

Contrariamente a quanto supponeva Li Gotti sulla fragile base di sporadici e tardivi spettacoli di argomento patriottico, i pupi siciliani non nascevano nel clima eroico e liberale del Risorgimento italiano per la semplice ragione che da questo movimento di riscatto morale e materiale i ceti più bassi dei contadini e degli artigiani erano stati tenuti fuori.

La fiammata di entusiasmo popolare per la figura eroica e leggendaria di Garibaldi si spegnerà ben presto, quando le masse dei proletari delle campagne e delle città si accorgeranno che anche l’intrepido condottiero ha dovuto cedere alla politica reazionaria del Regno sabaudo al punto da ordinare i massacri dei contadini insorti a Bronte e in altri comuni rurali contro lo sfruttamento dei proprietari terrieri.

In mancanza di un contatto con la cultura borghese più progressiva, il teatro popolare potrà dunque contare solo sulla attività letteraria di tipo artigianale e tradizionale di una piccola borghesia che aveva come libri di lettura i Reali di Francia e il Guerin Meschino del cantimbanca Andrea da Barberino vissuto in Toscana tra la fine del Trecento e gli inizi del Quattrocento, oppure conosceva gli scenari della Commedia dell’arte ripresi dalla commedia buffa napoletana, e che era soprattutto fedele ad un tipo di romanzo eroico-galante in cui si era rispecchiata la società neofeudale del Seicento barocco e arcadico.

L’opera più famosa della narrativa romanzesca secentesca sarà appunto quel Calloandro fedele scritto dal sacerdote genovese Giovanni Ambrosio Marini, pubblicato nel 1652 – 1653, e destinato a diventare il libo popolare per eccellenza nel repertorio dei cantastorie del Nord e del Sud e quindi dei loro continuatori, che sono gli opranti del teatro cavalleresco (…) Il nome che merita d’essere citato al posto d’onore è quello di Gaetano Crimi, nato a Licata nel 1808, ma vissuto poi sempre a Catania, dopo un lungo soggiorno ad Atene, dove il padre, maestro di musica, l’aveva mandato per compiervi gli studi. Il viaggio in Grecia sarà decisivo per la formazione culturale del giovane Crimi, che si perfezionerà nella conoscenza del greco e del latino, al punto di poter tradurre in italiano la vita di Alessandro Magno, racconti di storia greca e un’opera che s’intitola Dramoro di Medina.

Sarà questo nutrito bagaglio di cultura classica che lo spingerà a preferire la rappresentazione di leggende del ciclo greco e troiano, quando darà inizio alla sua attività di regista di spettacoli teatrali a Catania nel 1835, come c’informa il figlio Giuseppe nelle sue Memorie. Ma il fatto più importante del soggiorno ad Atene era stato l’incontro con un teatro di marionette in cui agiva come collaboratore dello spettacolo la figlia dell’oprante, una Laura Aliotti, che Crimi prenderà come sposa; portandola con sé in Sicilia insieme alle sue marionette.»

In rapporto a questa ricostruzione, che oppone la costante retorica di un Mezzogiorno inadeguato ad avere una capacità ideologica importante, si deve contrapporre proprio la specificità di don Gaetano Crimi, capace di lavorare su testi greci e latini, figlio di un violinista e legato inoltre ad un eroe siciliano del Risorgimento, Giovanni Crimi (vedi articolo Carbonari e Repubblicani). L’attribuzione del nome “Mazzini” al teatro fondato da Carolina Crimi e Raffaele Trombetta costituiscono ulteriore elemento di riflessione per rivedere il giudizio sommario espresso dai critici.

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Una nota personale.

L’ortografia Krymy che ritroviamo in rapporto al nome di Giovanni Crimi (vedi articolo sopra richiamato), che le fonti danno come nome di origine greca, rimandano all’ipotesi fatta da chi scrive, sulla base della corrispondenza con il prof. Dan Shapiro dell’Università di Yalta, che Krymy significhi semplicemente “persona che viene dalla Crimea” e che la penetrazione dei Crimi in Sicilia sia avvenuta intorno all’anno Mille, al seguito del generale bizantino Giorgio Maniace, per la reconquista della Sicilia (cfr. International symposium on the Karaites studies, Bilecik University, 2011 From_Tavrida_to_Crimea_The_Terms_of_Krym, pag. 116).

Krym-karailar, è un’etimologia che conduce all’origine karaita di questo ceppo, per cui si dovrà considerare l’ipotesi di un’origine ebraica orientale, poiché questa è la stirpe dei principi caraiti che si rintraccia dalle fonti (cfr. Karaite Judaism: A Guide to Its History and Literary Sources, edited by Meira Polliack); 

The people call themselves karai (pl. karailar). The designation has been linked to an Old Hebrew verbal noun qáráím ‘readers’ (of Holy Scripture), which would indicate that the members of this small Turkic group are adherents of a minor branch of Judaism. In an effort to distinguish between the Karaim and the Karaite, some scholars use the designation ‘East European Karaim‘ for the former. In some sources the Karaim have been recorded as the Tatars (this is sometimes used by the Karaim themselves), or as the Kirghiz or the Jews.

It is important to note that as recently as the beginning of this century literate Karaim priests regarded Hebrew as the Karaim language. Hebrew is the language in which sacred texts were written and it is still used during services of the sect in Egypt, Turkey and Israel.

Religion has played an important part in forming the Karaim people. Since the 8th century the Karaims have belonged to a sect of Karaism initiated by Anan ben David. This is a reformed Judaism which defends the religious doctrine as it is written in the Bible and rejects the Talmud, the oral tradition. From the 8th to the 10th centuries the Karaims were subjected to the rule of Khazar Kagan. It is recorded in the 13th century that the Karaim congregation practised in Solkhat, the capital city of the Crimean Tatars. In the 14th to the 16th centuries a small number of the Karaim people from Middle Eastern countries were absorbed by the Crimean Karaim.

The Karaims are settled widely in the Crimea, western Ukraine and Lithuania (cities). A small number of them also live in Poland, Romania and the U.S.A. Between the 11th and 18th centuries the majority of the Karaim lived in the mountainous central part of the Crimea, mostly near Bakhchisarai (Bahçesaray), in a fortified town called Cufut Kale (‘a Jewish fort’). In 1397 Vytautas, Grand Duke of Lithuania, resettled 383 Karaim families from Solkhat, now Stary Krym, on the Crimean Peninsula to the Trakai area in Lithuania.

Queste considerazioni hanno determinato in chi scrive un riconoscimento inconscio nella dedizione allo studio della Torah e, al contempo, una insoddisfazione verso l’ebraismo occidentale dominato dalla concezione rabbinica. Di questo stato emozionale e del suo successivo riconoscimento in funzione degli studi è data notizia oggettivata storicamente con il saggio Kohen Qabbalah e con il trattato L’Ebraismo per non ebrei, poi evolutosi nella composizione del testo Il Dio dell’Eden, dove è dato ampio risalto e spiegazione alle suggestioni dell’ebraismo orientale.

Kohen Qabbalah

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il dio dell'eden

Sulle origini ebraiche del nome Crimi, è inoltre da considerare la rilevanza di un Iosué Bennacrimi, originario di Randazzo, ultimo Dayan Kelaly della comunità ebraica (alyama) in Sicilia, prima dell’espulsione degli ebrei dai possedimenti della corona spagnola, entro la quale la Sicilia ricadeva nell’anno dell’editto (1492). Si dà notizia del fatto che Iosué rimase in Sicilia, sposando una donna cattolica e accettando la conversione, inserendosi di fatto in quel fenomeno comunemente chiamato dagli storiografi “marranesimo”, al pari di altre personalità eccellenti come Guglielmo Raymondo Moncada, noto peraltro per esser stato artefice del trasferimento delle più rilevanti opere ebraiche all’Accademica Platonica Fiorentina, attraverso l’intermediazione di Pico della Mirandola e Marsilio Ficino. Di queste notizie si può verificare la storicità soprattutto attraverso il Volume V di Italia Judaica.

Giungendo all’epoca risorgimentale, la vicenda di Giovanni Krymy è emblematica del consapevole intento antifeudale e antiborbonico, che smentisce ogni ipotesi contraria. Se si consente di chiudere questa nota con le risonanze di coscienza con cui è cominciata, chi scrive deve ammettere che non conosceva ancora la vicenda umana e politica di Giovanni Krymy quando iniziò a raccogliere gli studi che sarebbero confluiti nell’opera Mazzini Occulto che per molte ragioni si lega (Krymy era un abate che lasciò i voti, per divenire un combattente della libertà) a Giordano Bruno, di cui ho avuto l’ardire di scrivere una canzone: e la storia di Giordano Bruno, non foss’altro che per il comune autore dei monumenti bronzei di Giordano e di Mazzini, Ettore Ferrari, si legano indissolubilmente.

mazzini occulto

Mi accorgo fatalmente di aver generato una commistione tra il senso della ricerca storica e dottrinale con le radici del mio DNA, vorrei dire: delle voci ataviche che mi abitano e a cui ho dovuto dar voce. Non posso quindi se non completare con uno studio iniziale e seminale, fondato proprio sulla ricerca delle origini e fondato su un’esegesi dei primi tre capitoli del libro della Genesi, con l’autorevolissima introduzione di Luigi Moraldi che, come molti ricorderanno, è stato il più importante traduttore in lingua italiana dei testi di Nag-Hammadi.

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Dacché ho raccontato quasi tutto, mi sia permesso di chiudere cantando.

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Carbonari e Repubblicani

Il Catechismo Repubblicano per l’istruzione del Popolo e la rovina de’ Tiranni fu stampato a Venezia “nell’anno primo della libertà italiana”, cioè nel 1797, e riportava i cardini attorno a cui la carboneria si sarebbe costruita: l’idea che la nazione è il popolo; che la nazione-popolo deve governarsi da sé e che l’autogoverno popolare è il governo democratico; che il governo democratico ristabilirà la legge originaria, egualitaria, naturale e divina, infranta dalla malvagità e dall’ambizione degli uomini; che il governo democratico è un governo di popolo esercitato da uomini virtuosi; che l’unione universale delle Repubbliche realizzerà, quando l’umanità sarà pronta, un sistema senza capi, egualitario, superiorem non recognoscens.

L’assunzione di Cristo a simbolo del Sol dell’Avvenire, lasciando filtrare la tensione protestante verso il cristianesimo delle origini, portava luce dalle nubi dell’occultismo sette- e ottocentesco e, insieme, aveva lo scopo di facilitare il messaggio egualitario della redenzione sociale del popolo tra le masse popolari, esercitando attrazione verso le fasce intellettuali del basso clero. In questa quota troviamo l’abate messinese Giovanni Antonio Crimi, autore di Statuto e Istruzione, documenti istitutivi di una setta denominata Repubblica, particolarmente rilevanti per gli storici del Risorgimento, perché rappresentano l’unico esemplare di catechismo carbonaro conservato (Archivio di Stato di Palermo). Tra i vari scritti che riguardano Giovanni A. Crimi, va ricordato F. Guardione, Giovanni Krymy, in «Rassegna storica del Risorgimento», anno II, fasc. III, 1915. Proveremo adesso a ripercorrerne i passi.

Il padre di Giovanni, Nicolò Crimi, era un funzionario nell’amministrazione feudale. Coerentemente ai desideri del padre, Giovanni entrò giovanissimo nel Seminario cassinese benedettino di Messina, dove nel 1817 fu ordinato sacerdote. Ma presto sentì dentro sé una spinta diversa, simile a quella che due secoli e mezzo prima aveva guidato Giordano Bruno: farsi filosofo e rivoluzionario. Così nel 1820, lo troviamo partecipe dei Moti Carbonari di Palermo, mosso dal desiderio di impedire la restaurazione borbonica e la cancellazione della Costituzione del 1812, che aveva abolito la servitù feudale e sancito la espropriabilità dei beni dell’aristocrazia insolvente.

Giovanni riportò una ferita ad una mano, ma andò peggio ai suoi amici Brigandì e Cesareo, che vennero condannati a morte. Riuscito a fuggire, Giovanni venne successivamente arrestato per insubordinazione al Vescovo di Patti. In carcere alimentò le sue attività. È dal carcere che, nel 1825, scrive i documenti istitutivi dell’organizzazione segreta “Repubblica”. Tornato libero, a partire dal 1826 la diffuse, con il nome “Repubblica Romana“, tra Palermo e Messina, celata dietro le forme di circolo politico-letterario (tra gli aderenti figuravano A. Catara-Lettieri, G. Di Bella, F. Cundari, il barone Sofia con il fratello e il nipote, A. e I. Patania, F. Capasso, A. Mangano, G. Doller, A. David, N. Scuderi ed altri). Nel 1827 la cellula messinese fu scoperta dalla polizia e i cospiratori arrestati; Krymy e compagni vennero condannati a morte dalla Commissione Suprema di Palermo.

Tre giorni prima dell’esecuzione, in virtù di un concordato con la Chiesa, il Krymy si vide commutare la pena capitale in ergastolo; nel 1828 la pena venne ridotta a 24 anni di reclusione che il patriota scontò tra le carceri di Palermo, Trapani e Nisida. A partire da marzo 1845 fu sottoposto a domicilio coatto a Napoli.

Liberato nel 1847, fece ritorno a Messina, ove visse in condizioni di indigenza, riuscendo a guadagnare qualche soldo impartendo lezioni di latino e greco; è lo stesso Krymy che descrive così la sua grama situazione: “trovai tutti miei beni depredati e venduti da’ miei congiunti, e per due anni mendicai un pane alla pietà dei fedeli“.

Il 1º settembre 1847, Giovanni Krymy, insieme ad Antonio Pracanica e Paolo Restuccia (1815-1854), capeggiò la Rivolta di Messina, organizzando le squadre armate che diedero il via alla sollevazione e al combattimento ingaggiato nella piazza antistante al Duomo di Messina tra le bande degli insorti e le truppe borboniche provenienti dalla Cittadella. Per quanto eroico e passionale, il tentativo insurrezionale fallì. Krymy riuscì a fuggire travestito da mendicante, ma pochi giorni dopo venne riconosciuto e arrestato dalla gendarmeria borbonica. Portato in groppa ad un asino, fu esposto allo scherno e alla beffa per le vie di Messina, per poi esser tradotto nella famigerata “Cittadella” e giudicato da un tribunale straordinario. Nel corso della detenzione, attendendo la sentenza, venne sottoposto a tortura. Nuovamente condannato a morte, tuttavia la condanna non poté esser eseguita, mancando la ratifica pontificia (come disposto da una legge del 1839), che non arrivò mai per la protezione del cardinale arcivescovo di Messina, Francesco di Paola Villadecani, che non riunì mai la commissione di tre prelati che avrebbe dovuto rendere esecutiva la sentenza.

Durante la Rivoluzione del 1848, evaso dal carcere corse a combattere contro i Borbonici asserragliati nelle fortezze attorno a Messina. Fervido ed entusiasta rivoluzionario, il 5 aprile 1848 stampò la “Lettera al popolo di Messina“, ricca di spunti autobiografici. Esponente dello schieramento democratico e repubblicano, il 3 maggio 1848 fondò e presiedette il circolo politico “La Vecchia Guardia della Libertà” e si preoccupò di scongiurare i disordini tra le squadre armate.

Dopo 9 lunghi mesi di durissimo assedio, il 7 settembre 1848, l’esercito borbonico riuscì ad entrare a Messina, agendo con crudeltà verso la popolazione civile e seminando distruzione. Krymy riuscì a fuggire a Palermo, dove combatté fino al 15 maggio 1849, giorno in cui anche la capitale siciliana venne espugnata dall’esercito di Ferdinando II di Borbone.

Dopo una breve detenzione, si ritirò nella nativa Galati Mamertino, desideroso di vivere un’esistenza appartata: ma fu denunciato dal notaio del paese, Lando, nonostante la difesa ufficiale dell’Intendente di Messina, dott. Michele Celesti, che aveva dichiarato che il Krymi “ viveva tranquillo volendo chiudere i suoi giorni in pace e senza più volgere il pensiero ad utopie“.

Su ordine del generale Carlo Filangieri, principe di Satriano, nei primi mesi del 1850, Giovanni Krymy venne rinchiuso nelle prigioni centrali di Messina, dove morì di privazioni e, probabilmente, di colera, il 6 settembre del 1854, condividendo la stessa sorte con l’amico di sempre, Paolo Restuccia.

Anche sulle origini dei Crimi in Sicilia, si veda l’articolo di Dario De Pasquale, cliccando sull’immagine che ritrae Giovanni Krymy (con particolare attenzione alla nota 1, dove si riferisce che i Crimi traggono origine dal gruppo giunto al seguito di Giorgio Maniace). Si veda altresì la pagina presente in Fondazione Crimi.

Giovanni Krymy
Giovanni Krymy, 1794-1854

L’altro Mazzini

Sono numerose le biografie su Mazzini, ed altrettanto numerose sono quelle che cominciano ammettendo una certa qual ineffabilità del personaggio, sia in politica che in filosofia. Ancor più sfuggente è il critico d’arte e, nascostissimo dalle molteplici vesti, finalmente, l’artista: che è l’immagine pubblica probabilmente più vicina all’uomo. Per verificare se vi sia o no legittimazione nel sostenere che oltre al compassato Mazzini scolastico, imbalsamato nella posa carducciana de “l’uomo che mai non rise”, è sufficiente scorrere l’indice dei nomi delle biografie principali. Fate la prova: all’interno di nessuna di queste troverete i nomi di Helena Petrovna Blavatsky, di John Yarker, di Elifas Levi, di René Guénon che pure ebbero (i primi tre contemporanei, l’ultimo fonte novecentesca), grande rilievo per lo sviluppo del pensiero mazziniano. Questo viaggio di introspezione è il percorso tentato con il MAZZINI OCCULTO, con inquadrature che vanno dalla sfera intima degli affetti privati alla sua centralità nel panorama esoterico dell’Ottocento. Chi vuol esaminare una prospettiva inusuale per avere una lettura molto distante dagli stereotipi – ma non per questo meno fondata e documentata – troverà nella fonte indicata molti spunti e importanti approfondimenti. Tra questi, non secondario il ruolo che la musica, in specie, la canzone accompagnata dalla chitarra, ebbero per la vita sociale di Mazzini, specialmente negli anni dell’esilio in Svizzera e poi in Inghilterra, dov’è legittimo immaginare un uso politico della chitarra. Custodita oggi nella casa-museo di Genova, la chitarra è una “Fabbricatore”, liutaio napoletano molto apprezzato nell’Ottocento. Di testi e spartiti autografi di Mazzini, purtroppo non rimane che “Il canto delle mandriane di Berna”, una nenia che egli adattò come canto di nostalgia per la donna più amata, tormentata dalle difficoltà dell’esilio e che qui si presenta con titolo, tratto dal primo verso del testo “Perduto Fior”.

Un altro brano, che non è possibile attribuire con certezza a Mazzini ma che di certo egli dovette conoscere, è il “Canto dei Carbonari”, altrimenti noto come “La bella che guarda il mare”, allegoria dell’Italia che, prigioniera, vuol liberarsi. Anche qui, l’immagine del donna “con tre colori in testa”, fa pensare proprio alla donna più amata da Mazzini, Giuditta Bellerio, che portò il tricolore durante i giorni della rivoluzione a Reggio Emilio, dove ancora si conserva presso il museo civico come prima bandiera italiana.

Morire di petrolio

«Gli italiani vogliono consapevolmente sapere quale sia stato il vero ruolo del Sifar.
Gli italiani vogliono consapevolmente sapere quale sia stato il vero ruolo del Sid.
Gli italiani vogliono consapevolmente sapere quale sia stato il vero ruolo della Cia.
Gli italiani vogliono consapevolmente sapere fino a che punto la Mafia abbia partecipato alle decisioni del governo di Roma o collaborato con esso.
Gli italiani vogliono consapevolmente sapere quale sia la realtà dei cosiddetti golpe fascisti.
Gli italiani vogliono consapevolmente sapere da quali menti e in quale sede sia stato varato il progetto della «strategia della tensione» (prima anticomunista e poi antifascista, indifferentemente).
Gli italiani vogliono consapevolmente sapere chi ha creato il caso Valpreda.
Gli italiani vogliono consapevolmente sapere chi sono gli esecutori materiali e i mandanti, connazionali, delle stragi di Milano, di Brescia, di Bologna.
Ma gli italiani – e questo è il nodo della questione – vogliono sapere tutte queste cose insieme: e insieme agli altri potenziali reati col cui elenco ho esordito. Fin che non si sapranno tutte queste cose insieme – e la logica che le connette e le lega in un tutto unico non sarà lasciata alla sola fantasia dei moralisti – la coscienza politica degli italiani non potrà produrre nuova coscienza. Cioè l’Italia non potrà essere governata.»

Pasolini sul “Corriere della Sera” il 28 settembre 1975