Mazzini Cantautore

Mazzini cantautore è certamente una formula la cui adattabilità alla personalità storica di Giuseppe Mazzini è discutibile. Discutibile, certo, ma non di certo insostenibile. Mazzini aveva la sensibilità per comprendere l’importanza di uno strumento di comunicazione così profondo e significativo qual è la canzone, lui stesso ne ha scritte alcune (anche se ne sopravvive una soltanto, o forse due, come si dirà in questo articolo) e la sua generale idea sull’importanza della musica è chiara e indelebile per com’è tracciata nel suo scritto Filosofia della Musica.

Un recente articolo di Giuliano Galletta su Il Secolo XIX del 7 Marzo 2011 proponeva una interessante retrospettiva sulla figura di Mazzini “cantautore”. Accompagnando questo articolo con una recensione, avevamo scritto che, per quanto i polverosi e pedanti storici potranno ritenere questa considerazione una banalizzazione post-moderna del pensiero di Mazzini, questa eventualità al contrario, etichetta se mai proprio quei polverosi come post-moderni: il post-modernismo infatti non è che una corrente estetica reazionaria e oscurantista che ha caratterizzato gli anni ’80 del XX secolo e che, purtroppo, ancora non si è del tutto estinta. Mazzini è lontanissimo dalle formule patinate, è un impegnato, anzi, è il precursore dei cantautori impegnati che verranno con il Millenovecento.

Di questo si è ricostruita una attendile traccia, da quando presso il Museo Risorgimentale di Genova è stato ricostruito lo studio di Mazzini, con la scrivania ed alcuni oggetti che gli appartennero, tra i quali l’amatissima chitarra donatagli dalla madre Maria Giacinta Drago, e che portò con sé in esilio e ovunque. Delle sue canzoni non rimane che una pagina composta nel 1836 intitolata “Canto delle mandriane bernesi” perché ispirata a un canto di pastori, da lui liberamente adattato per il suo testo.

La chitarra fu costruita nel 1821 da Fabbricatore, liutaio napoletano che Sergio Maifredi, compositore che ha più volte imbracciato lo storico strumento, ha definito «Fender dell’Ottocento». Ad una migliore osservazione però, più che con la Fender, date le dimensioni della chitarra che la caratterizzano come “parlor” (e cioè quel genere di chitarra che si avvicina alla forma “a 8”, in uso nei luoghi ristretti, da conversazione, da cui appunto parlor) e quindi l’accostamento andrebbe fatto ai migliori costruttori d’oltreoceano dell’epoca, come la Washburn di Chicago di Lyon & Healy, che sarà la casa che darà avvio alle tradizionali differenze per dimensione delle chitarre, che vanno appunto dalla “parlor” alla “jumbo”, passando per la “dreadnought”.

Il legame “parlor”-Chicago fa sentire nella chitarra di Mazzini qualcosa che anticipa il blues, inteso come canto necessario, intriso di desiderio di riscatto e di rivalsa. I canti di Giuseppe Mazzini anticipano lo stile e i temi di quanti tra i moderni cantautori, da Woody Guthrie a Bob Dylan al nostro De André, hanno vissuto la musica come strumento di conquista sociale e di lotta per l’emancipazione. Il legame logico e funzionale è particolarmente forte tra Mazzini e Dylan quando si esaminino le ascendenze letterarie in relazione ai trascendentalisti americani.

Mazzini conobbe le opere di Henry David Thoreau e Ralph Waldo Emerson attraverso la frequentazione a Londra del filosofo Carlyle e con il sopraggiungere proprio dall’America di donne rivoluzionarie, tra cui Margaret Fuller. Dal punto di vista di Dylan, il rimando è soprattutto alla poesia di Allen Ginsberg e al suo scrivere “into a stream of consciousness” rispetto alla quale il poeta americano indica esplicitamente come forme storiche di questo modo di scrivere Whitman, Melville, Thoreau ed Emerson, mettendo in luce non soltanto scelte estetiche, ma anche una concezione politica, proprio come nei trascendentalisti e in Mazzini, fortemente protesa verso l’emancipazione e l’accrescimento del livello di coscienza.

Il brano “Perduto Fior” noto anche come “Canto delle mandriane di Berna” è qui eseguito arbitrariamente dall’Autore del M.O., dopo un interessante prologo sul cerchio di donne intorno alla chitarra di Mazzini e la loro influenza sull’utopia risorgimentale.

Il “Canto dei Carbonari” non è direttamente ascrivibile a Giuseppe Mazzini, non vi sono elementi di riconduzione, ma si può certo considerare a lui noto, e la protagonista femminile che incarna idealmente l’Italia, “la bella che guarda il mare”, è facile identificarla con l’amata di Mazzini, Giuditta Sidoli, “con tre colori in testa”, quando portò il tricolore durante i moti di Reggio Emilia, che ancora oggi si conserva nel Municipio di quella città.

Jinney the Witch” è infine un brano che il nostro George Brown considera un “dono trascendente”. In visita sui luoghi mazziniani a Londra, sapendo che il primo incontro tra Mazzini e Carlyle era avvenuto alla World’s End Tavern, la cercava in prossimità della casa di Carlyle a Chelsea. Non essendo riuscito nell’intento, George, sotto passaporto falso, aveva infine rinunciato, pensando che 150 anni sono troppi per una taverna. Fortuitamente, sceso dalla metro a Camden Town, il caso volle che delle otto possibili uscite imboccasse proprio quella che si affaccia proprio di fronte all’ingresso della World’s End Tavern che, come recita la targa esposta all’ingresso, fu lungamente dimora di Mother Red Cap, chiamata anche Jinney la strega, una donna che aveva vissuto nel XVII secolo una vita turbolenta, con quattro mariti e due processi per stregoneria e che, alla fine, aveva trovato dimora in questa taverna di cambio dei cavalli in un sobborgo di Londra, oggi assorbito dalla metropoli.

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