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Considerazioni sull’idea di un Grande Oriente Democratico

Grande Oriente Democratico SquareGrande Oriente Democratico. Cosa vuol dire e da dove viene la necessità, e perché debba considerarsi essenziale nel nostro tempo.

Uno scritto del L::F:: Althotas

L’idea di una vita spirituale che non sia religione. L’idea di una filosofia che sia anche pratica operativa. L’idea della natura spirituale del sapere: nella generale insipienza occidentale, tendiamo a pensare tutto questo come se fosse sempre esisitito.  Non è così. Non solo: si tratta di qualcosa che non abbiamo ancora conquistato.

Nel passato, fino alla caduta dell’Ancien Régime, saper leggere e scrivere era l’esclusivo privilegio di nobiltà e clero. Questa coltivata ignoranza, utile a non permettere nessuna comprensione al popolo, legittimava i privilegi degli alti dignitari semplicemente ponendoli al riparo dalla vista della gente comune.  Il re era re perché Dio lo aveva scelto; il papa aveva la verità perché Dio gliela aveva data.

Non siamo abituati a pensare, a riflettere su questo, ma l’idea di un sistema di conoscenza che sia per tutti è una conquista assolutamente recente. Prima delle Grandi Rivoluzioni liberali (la R. Francese, certo, come sappiamo dalla scuola; ma non siamo adusi abbastanza ai contenuti della R. Americana, né a quel meraviglioso tesoro di diritti indefettibili che è il portato della Glorious Revolution del 1688 in Inghilterra), saper leggere e scrivere era privilegio esclusivo dell’aristocrazia e del clero. Il resto della popolazione era, nella stragrande maggioranza, analfabeta.

La Massoneria ha avuto questo ruolo in Europa: quello di costituire un polo di istruzione ed educazione alternativo e terzo rispetto all’aristocrazia e al clero. Da qui è venuta la scintilla di consapevolezza che ha prodotto le Rivoluzioni Liberali. Di qui il sapere per tutti, di qui l’affermazione di una scuola pubblica, di una pubblica istruzione per tutti come fondamento di una società nuova e aperta, capace di orientare ogni persona verso la vita come esperienza di crescita e di perfezionamento.

L’apertura del sapere a tutti si è scontrata certamente con la restaurazione delle classi oscurantiste, che hanno cercato di riportare tutto agli equilibri precedenti: ma ormai lo status quo era infranto.

Le grandi passioni romantiche, la volontà di far nascere una Età della Ragione, di far trionfare una nuova era, tutto questo è stato il sogno delle utopie Ottocentesche, prima che queste meravigliose idee della storia umana come storia del progresso e della vita spirituale fossero aggredite da un nuovo nemico: il materialismo.

La restaurazione, dopo aver tentato con la forza (il Terrore che travolse la R. Francese fu il frutto avvelenato della furia reazionaria dei vecchi padroni), è passata progressivamente – assorbendo le forze emergenti della nuova borghesia capitalista – a prendere il ruolo di una nuova aristocrazia che ha addomesticato ogni tentativo di emancipazione comprando persone e simboli, cambiando senso alle parole, svuotandole di significato e riempiendole di merci. La stessa Massoneria, che pure era stato uno dei principali agenti della nuova cultura, è stata egemonizzata e asservita agli interessi delle nuove élites.

In questo modo, già alla fine dell’Ottocento la propaganda del potere ha scelto di far credere che per volere il bene delle classi subalterne, occorreva essere materialisti e non farsi ingannare.  A nulla valse che le anime più sensibili (Paine, Yarker, Blavatski e il nostro Mazzini) avessero subito compreso che l’unica vera possibilità di emancipazione è nell’offrire a tutti istruzione ed educazione, senza di cui è impossibile per le persone poter accedere alla vita spirituale.

Le forze reazionarie trassero vantaggio dal materialismo, che rimetteva la cappa sulle aspirazioni del popolo.  L’internazionale dei lavoratori fu distrutta proprio dal prevalere di questa tesi, poi resa ridicola dall’interpretazione (imposta) stalinista del “socialismo in un solo paese”.

Ma non si può tornare indietro.  C’è stato chi ha pubblicato finalmente rituali che prima erano segreti, privilegio esclusivo di pochi, tramandato per secoli.  Ora, questi sono sotto gli occhi di tutti.  Tutti li possono studiare: questo il privilegio della modernità. Ma i rituali, per quanto siano visibili, non possono essere compresi senza l’esperienza.

Ecco perché abbiamo bisogno di strutture che possano promuovere una cultura di emancipazione e progresso, che possano farsi interpreti di un nuovo Rinascimento in un’epoca che, più che nuovo Medioevo, rischia di involversi al punto di manifestarsi come nuova Preistoria.

Un sistema filosofico e operativo che sia orientato non alla conservazione della supremazia delle classi privilegiate ma all’emancipazione di tutti e di ciascuno è stato il sogno degli intellettuali progressisti che, nel passaggio tra Rinascimento ed Età dei Lumi, ha portato a concepire la possibilità e il sogno di una vita libera per tutti, una vita per ciascuno protesa all’espansione della coscienza e della conoscenza, in pace e in armonia con gli altri.

Ecco perché è tempo di superare l’oscurantismo dozzinale e inflattivo della nostra epoca e riprendere in mano lo strumento principe del lavoro spirituale nella società, che è determinato dalla sfera massonica.

Da troppo tempo la Massoneria è asservita agli interessi reazionari ed oscurantisti delle élites consociate di quel che rimane dell’aristocrazia e dell’emergente alta borghesia, e gli effetti nefasti sulla perdita di valore dell’interesse pubblico sono evidenti.  Il Grande Oriente è nelle mani di queste élites, ed è un soggetto reazionario che propone e mantiene interessi che hanno troppo a che vedere con gli affari e l’affarismo e troppo poco con l’alchimia e le dottrine esoteriche.

Per coloro i quali non sono esperienti di questo genere di cose, profani o agnostici, possiamo dire, di fronte alla loro simulata indifferenza, che è evidente che il lavoro che ciò comporta conduce a confrontarsi con la parte oscura del nostro inconscio. Ecco perché molti fuggono e si sentono rassicurati dal pensiero che tutto questo non è che satanismo.  La psicoanalisi dovrebbe averci abituato ad avere un altro approccio, a capire che la logica manichea di un dio opposto ad un altro è infantile come ogni dualismo, che non comprende la complessità e l’infinita varietà del mondo. Di questo stupido perbenismo borghese ci siamo già occupati con un precedente articolo dal titolo

SULLA NECESSITÀ ANTROPOLOGICA DELLE ORGANIZZAZIONI INIZIATICHE E SULLE OPPORTUNITÀ DELLA LORO MODERNIZZAZIONE

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ma vogliamo comunque ribadire che non ha senso, come fano taluni intellettuali contemporanei, coltivare un’antimafia di maniera e proporre ai ragazzi di quartieri sempre più marginali e ghettizzati, a fronte della criminalità il perbenismo compiacente verso una società che preclude loro l’ingresso. Ed è ancora più ipocrita se questo si accompagna ad una mitizzazione dei comportamenti criminali che, come ben sa chi utilizza questi schemi, ha sempre effetto emulativo e quindi nuoce ulteriormente alla società. Se a questo si aggiunge la demonizzazione indiscriminata delle organizzazioni iniziatiche, il circuito si chiude con un sigillo ermetico, che impedisce ogni comprensione.

Tutto questo ha radici profonde.  Già subito dopo i trionfi delle rivoluzioni del XVIII secolo e i grandi tumulti dei moti dell’XIX, le forze reazionarie hanno cominciato ad agire per addomesticare la Massoneria, questo potente motore di innovazione ed evoluzione sociale, rendendola un covo di interessi materiali, ponendo ai vertici persone che coltivano interessi materiali e brame di potere e mantenendo la base divisa in nome della Tradizione e del concetto di Obbedienza, dove attuali Gran Maestri addirittura giungono a proibire ai loro Adepti di poter partecipare ai rituali e ai lavori di loggia di Logge dello stesso rito o di riti diversi.

Né si potrà negare che spesso la Massoneria, deposte di fatto le insegne del progresso ma mantenendole bene in evidenza nella vuota forma svuotata di significato, è stata anche il paravento di situazioni inenarrabili, dove gli interessi delle élites hanno trovato conveniente creare relazioni (e iniziazioni) con ambienti terribili, utilizzando pro domo di qualche sedicente e oscuro maestro, personaggi apertamente legati alla mafia e alle strutture militari e paramilitari per gestire affari in cui lo scambio di armi e di droga è operazione non certo infrequente.

A questo inquinamento della Massoneria, a questa perdita della funzione storicamente esercitata in termini di progresso ed emancipazione deve rispondere la modernità con soluzioni nuove, che non possono essere trovate nel mondo esterno, ma richiedono un approfondimento interiore, spirituale, e quindi necessitano una rivisitazione della storia e il modo di far riaffiorare alla coscienza ciò che la propaganda ha nascosto. In primo luogo, si dovrà combattere l’avversione che il sistema ufficiale di comunicazione esprime verso le società iniziatiche: perché è proprio questa volontà di esclusione e di occultamento che ne determina l’infruibilità, l’impossibilità di differenziare tra posizioni oscurantiste e progressiste, la parte corrosiva e corrotta dalla parte viva e positiva che apporta nuova linfa.

L’utopia che sorse dalla fine dell’Ottocento, esprimendosi nel Liberty e nell’Art Noveau come componenti estetiche e dando vita all’Internazionale dei Lavoratori in politica ha le sue radici più profonde nell’idea universale di fratellanza e di apertura delle società iniziatiche a tutti.

Ecco perché l’Universalismo – la posizione che, al suo sorgere, era stata della massoneria irregolare dei Riti di Fronda, della contaminazione tra Rosacrocianesimo e Cabala e, attraverso il contatto con la Turchia, con il Sufismo – continua ad essere una posizione disconosciuta dai centri del potere oscurantista: perché, affermandosi, porterebbe la gente a dialogare, a capirsi, a comprendere che le divisioni sono volute e favorevoli al potere, come recita il famoso divide et impera della cosiddetta realpolitik.

L’Universalismo, nel rispetto delle diverse Tradizioni (altrimenti degraderebbe in sciocco sincretismo o in vuoto ecelttismo di maniera) è la posizione di chi crede che il dialogo tra persone intelligenti sia luce spirituale, di chi crede che la Tradizione debba manifestarsi per rivelazioni progressive.  Anche nel Corano, che l’Occidente ignorante e pieno di pregiudizi respinge come oscurantista, al contrario, parla di questa verità progressiva, di interpretazioni che emergeranno nel tempo perché la fratellanza degli uomini sia possibile nella luce spirituale. L’Universalismo è la frontiera del dialogo iniziatico, che può abbracciare non soltanto Ordini diversi, ma anche Religioni diverse. Proprio per questo è avversato da chi detiene il potere e mediante l’uso distorto del concetto di Tradizione (intesa come dogma sacro e immutabile, invece che come verità spirituale che si rivela progressivamente), mantiene nelle tenebre i suoi sudditi. E come i Templari usarono il Terrore al tempo della rivoluzione francese, ancora oggi questi usano il terrorismo e la strategia della tensione per chiuderci dentro il sacco della paura.

Ecco qual è il ruolo la funzione storica del Grande Oriente Democratico. Ecco qual è la missione di chi vorrà s’engager in questa eccellente lotta ideologica ed opera alchemica per la trasformazione di se stesso di otto persone intorno.

Ecco perché l’idea di un Grande Oriente Democratico è di grande importanza per la nostra contemporaneità: occorre una nuova elaborazione, capace di togliere il velo sospeso tra i Pilastri del Tempio, aprire una nuova epoca e ri-velarlo.  Ecco perché confidiamo che Riti ed Obbedienze diverse possano confluire nel G::O::D:: e conquistare la Luce del nostro tempo, vedere la Stella del Mattino.

Thomas Paine e Giuseppe Mazzini

societasmazzinilogo4 Thomas Paine per l’indipendenza americana come Giuseppe Mazzini per l’indipendenza italiana: un’equazione che riassume la tesi del noto storico Denis Mack Smith nel suo libro “Mazzini” (Yale University Press, 1994).  Entrambi sostenitori di un’idea di emancipazione dei popoli sorretta da una luce spirituale, entrambi sostenitori di una ragione come via universale per l’accesso alla pienezza della vita. Giuseppe Mazzini (1805-1872) non conobbe direttamente Thomas Paine (1737-1809): come dimostrano le date, era ancora bambino quando Paine morì.  Le sue idee furono però ispirazione costante per Mazzini, che del resto fu in prolungato contatto epistolare con il biografo di Paine, Daniel Moncure Conway (1832-1907), che  ne fu anche il curatore postumo degli scritti. Thomas Paine fu pensatore originalissimo, al punto da introdurre un’idea inaudita, senza precedenti: che si possa avere una vita spirituale senza aderire ad alcuna religione.  Di questa idea Mazzini fu il perfetto araldo anzi, come egli stesso si definì, l’Apostolo Popolare, profondamente persuaso che la ragione si dovrà affermare attraverso l’educazione e l’istruzione, da destinare a tutti gli uomini e le donne secondo la capacità di ciascuno di ricevere, per gradi, una illuminazione progressiva. Volendo cercare un parallelismo per queste idee modernissime (e invero non ancora pienamente realizzate), si dovrà evocare il modello esoterico della scuola di Pitagora, che Paine richiama esplicitamente nella sua famosa opera The Age of Reason (specialmente nel capitolo The Origin of Free-Masonry).  Oppure, si dovrà attendere la poesia visionaria di William Blake (1757-1827) che, in fondo, si alimenta dello stesso fuoco (ma questo è un argomento che sarà trattato altrove). Per evitare scorciatoie logiche, si dovrà notare, come afferma la Grand Lodge of Columbia and Yukon, che non ci sono prove che Thomas Paine abbia fatto parte della Massoneria, come del resto l’appartenenza di Mazzini, secondo il Grande Oriente d’Italia, non è mai stata provata, almeno non in senso organico e attraverso una iniziazione rituale “regolare” (è certa invece la sua appartenenza a ruoli direzionali della Carboneria). Queste considerazioni, qui conchiuse in un accenno (si troveranno sviluppate in altra sede e con ragioni superiori), non valgono certo a escludere l’eccellenza iniziatica delle personalità in argomento, mettendo in risalto, per coloro che intendono, che la Massoneria è una via purtroppo non unitaria e, per fortuna e per grazia, non unica. Tornando alla tesi di Mack Smith, Mazzini e Paine sono eroi dimenticati, ingiustamente oscurati.  Troppo avanzata la loro idea di una spiritualità senza religione per la loro epoca: e continua ad esserlo ancora per la nostra. Personalità misconosciute e mal interpretate, di cui la storiografia ufficiale continua a dare ritratti parziali: imbarazzante per il sistema del potere prendere in considerazione le loro tesi, aprirle alla comprensione attiva degli studenti, alla conoscenza generale di tutti.  Sono idee pericolose, minacciano il potere costituito nella sua intima essenza. Lo sradicamento dell’ignoranza e l’apertura della mente ad una consapevolezza moderna, da conquistare mediante avanzamenti progressivi, posti sotto l’astro luminoso della ragione trascendente: troppo per le oligarchie oscurantiste che detengono il potere sotto il duplice manto dell’ignoranza e della superficialità. Ecco perché il nostro lavoro deve partire dal sottrarre la memoria all’oblio, dal restituire luce alla luce.  Non possiamo dare ulteriore spazio a chi parla con lingua di tenebra.  Non possiamo continuare ad aver paura.  Restando nella paura, soccomberemmo ancor prima.  Dobbiamo affermare la rivolta della Ragione. Ecco perché Thomas Paine e Giuseppe Mazzini sono fari nella notte oceanica di questo viaggio, astri numinosi che indicano la Via. Con fiducia, con speranza, soprattutto con il tenace ottimismo della volontà, tendiamo il nostro sguardo all’aurora ammantata d’oro e accesa di verde e di porpora che sorge al nuovo Oriente.

JFK and the Executive Order 11110

On June 4th, 1963 President John F. Kennedy (the 35th President of the United States 1961 – 1963) signs Executive Order 11110 which returned to the U.S. government the power to issue currency, without going through Federal Reserve. Less than 6 months later on November 22nd , president Kennedy is assassinated: someone says for the same reason as President Abraham Lincoln.  In 1865, Lincoln wanted to print American money for the American people, as oppose to for the benefit of a money grabbing war mongering foreign elite.  This Executive Order 11110, is rescinded by President Lyndon Baines Johnson (the 36th President of the United States 1963 to 1969) on Air Force One from Dallas to Washington, the same day as President Kennedy was assassinated.

See: The American Presidence Legacy [http://www.presidency.ucsb.edu/ws/?pid=59049Executive Order 11110 – Amendment of Executive Order No. 10289 as Amended, Relating to the Performance of Certain Functions Affecting the Department of the Treasury
June 4, 1963

That Order 11110 would have meant to cut the hegemony of the industrial-military complex – according to the Eisenhower’s definition.  Therefore, it is clear what happened.

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Mazzini e le donne del Movimento (2)

LE DONNE DI MAZZINI / 2 – GIUDITTA, AL CUORE DELLA “GIOVINE ITALIA”

(9Colonne) – http://www.9colonne.it/adon.pl?act=doc&doc=28599#.VTzfuyHtmko

Quando, alla fine del 1831, Giuseppe Mazzini entra nella casa di Marsiglia di Giuditta Bellerio, alla bella vedova diventata eroina dei moti di Ciro Menotti quell’allampanato 26enne deve apparire molto simile, se ben presto se ne innamorerà per divenire la prima delle sue tante adepte, ma l’unica che l’“Apostolo” amerà davvero, a quell’amico “Pippo” che il genovese Giovanni Ruffini, in un suo romanzo pubblicato in Inghilterra 20 anni dopo, descriverà con il nome romanzesco di Fantasio: “Era il giovane più affascinante che io abbia mai conosciuto; gli occhi neri morati a certi momenti mandavano lampi. La carnagione olivastra e l’insieme delle sue linee, che ti colpiva, era per così dire, incorniciata da una nera e ondeggiante capigliatura, che egli portava alquanto lunga. L’espressione della faccia, grave e quasi severa, era addolcita da un sorriso soavissimo, misto a un certo non so che esprimente una ricca vena comica. Era bello e fecondo parlatore; e quando s’incaloriva a discutere, era ne’ suoi occhi, nel gesto, nella voce, in tutto lui, un fascino irresistibile”. Dunque proprio quel giovane in quel 1831 conosce Giuditta, cambiando la vita sua e degli altri patrioti fuggiti con lei, pochi mesi prima, per il fallimento dell’insurrezione guidata da Ciro Menotti a Modena e dilagata tra Emilia Romagna e Marche. E, delle ragioni di quel fallimento, a Giuditta ed al circolo carbonaro che si ritrova in casa sua, Mazzini offre una lucida analisi – le sette carbonare si sono mosse su orizzonti politici ristretti e non hanno cercato l’appoggio delle masse popolari – ma anche una nuova ed ambiziosa prospettiva. Mazzini ha appena fondato, in estate, la società segreta della Giovine Italia, prototipo del partito rivoluzionario moderno. Il suo slogan è “libertà, uguaglianza, umanità” ed “unità e indipendenza”. L’obiettivo è sintetizzato in una formula inequivoca, che parla ad ogni ceto sociale: creare l’Italia, “una, indipendente, libera e repubblicana”. L’unico credo è mosso da una fede laica che mette sull’altare “Dio e popolo” e “pensiero e azione”. Un movimento insurrezionale ambizioso per un giovane che, fino ad allora, aveva giusto organizzato una associazione di contrabbando per leggere libri e riviste vietate. “Tecnicamente” nato francese, nella Genova che ha scacciato gli austriaci, Mazzini passa i primi anni di vita su una sedia a rotelle, è un bambino iper-sensibile, studia fino a 14 anni in casa con precettori giansenisti scelti dalla devota madre Maria Drago, a 15 anni si entusiasma per le imprese degli 84 alunni dell’Università di Pavia che, nel 1821, fondano il Battaglione della Minerva e accorrono in Piemonte per sostenere i moti liberali, con l’emblema tricolore disegnato dalla milanese Bianca Milesi (tra di essi anche il 21enne Maurizio Quadrio che finirà in esilio a Genova e diverrà uno dei più fedeli mazziniani). A 17 anni si iscrive a legge perché non può frequentare medicina come vorrebbe il padre Giacomo, docente universitario di anatomia (alla prima lezione in obitorio sviene) e legge di nascosto in chiesa, rilegato come un messale, l’Esquisse dell’illuminista Condorcet. Il libro che inneggia all’uguaglianza di ogni uomo e donna di fronte al progresso, diventa la sua bibbia. Non partecipa alle goliardie dei compagni d’università e, cupo ed assorto, prende a vestirsi di nero, come per “portare il lutto della patria” scriverà poi. Impara a memoria l’Ortis di Foscolo, diventandone un fanatico (tanto che “la mia povera mamma temeva un suicidio”, ricorderà). Quindi conosce degli “scelti giovani d’intelletto indipendente, anelante a nuove cose” (tra tutti Federico Campanella, che sarà testimone dell’agonia di Mameli a Roma e uno dei pochi “veri” mazziniani tra i Mille di Garibaldi e i fratelli Giovanni, Agostino, Ottavio e Jacopo: i fondatori con Mazzini della Giovine Italia). Un gruppo di giovani romantici con cui Mazzini può dare “sfogo alle ardenti passioni” che gli “fermentavano dentro”. Nella letteratura cerca testimonianze di vita civile e di riscatto dalla decadenza morale: Tacito, Dante, Machiavelli, Foscolo, Byron, Goethe, Alfieri, Manzoni. Cura una rubrica letteraria, ma con intenti politici, sull’Indicatore Genovese (che infatti di lì a poco verrà chiuso). Ma tutto questo non gli basta. Ha 22 anni quando, nel 1828, nel buio serale del parco dell’Acquasola, pronuncia la frase del giuramento carbonaro ed entra in un mondo elitario e mistico, inneggiante a San Teobaldo,  diventando in soli due anni maestro. Ma, nell’autunno 1830, mentre sguaina la spada per affratellare un neofita – che in realtà è una spia -, viene arrestato. Incarcerato nella fortezza di Priamar, a Savona, dalla sua cella può vedere solo cielo e mare. E proprio in quei giorni arriva a Genova la 22enneCristina Trivulzio di Belgioioso, anche lei in fuga, come Giuditta, ma non per aver combattuto ma per avere, lei una delle più ricche ereditiere lombarde, finanziato la fallimentare impresa di Ciro Menotti. La bella Cristina che si appresta a diventare la principessa rivoluzionaria e la salottiera mazziniana più famosa di Parigi è ospite di Nina Giustiniani, l’amante di Cavour e della marchesa Adelaide Zoagli, la madre di Goffredo Mameli, che allora ha solo 3 anni. Lo ritroverà 22enne, nel 1849, già autore di “Fratelli d’Italia”, combattente della Repubblica romana martoriata dall’artiglieria francese, in uno degli ospedali che Cristina dirige, insieme ad altre donne, crocerossine ante-litteram, per ordine di Mazzini. Lo assisterà costantemente, insieme ad Adele Baroffio, amante veneziana del giovane, per una lieve ferita ad una gamba; urlerà contro chi lo aveva medicato quando si accorse, pochi giorni dopo, che la ferita si era infettata perché non ripulita a dovere. Lo consolerà per una settimana leggendogli Dickens mentre la cancrena lo andrà divorando, fino alla necessaria amputazione della gamba; e quindi sarà ancora al suo fianco, per altri 14 giorni di agonia, fino alla morte.  Intanto per Mazzini, rilasciato ad un mese dall’arresto, si apre la via dell’esilio, che percorrerà per tutta la vita, tranne rari momenti di permanenza in Italia e sempre con falsi passaporti da gentiluomo inglese. Dunque Mazzini diventa uno dei tanti giovani di fede liberale che vanno ingrossando le colonie di esuli italiani tra Francia ed Inghilterra. Ma a Giuditta, in quel 1831, bastano poche parole per sentire come, dentro il gracile genovese, viva una anima “infaticabilmente attiva” e “un indomabile spirito di rivolta contro ogni tirannia ed oppressione”, per citare sempre le parole dell’amico Ruffini: è il fuoco di un misticismo democratico per il quale due generazioni di giovani si preparano a lottare per creare l’Italia unita. Lo stesso fuoco che farà scrivere a Metternich nelle sue memorie: “Ebbi a lottare con il più grande dei soldati, Napoleone. Giunsi a mettere d’accordo tra loro imperatori, re e papi. Nessuno mi dette maggiori fastidi di un brigante italiano: magro, pallido, cencioso, ma eloquente come la tempesta, ardente come un apostolo, astuto come un ladro, disinvolto come un commediante, infaticabile come un innamorato, il quale ha nome: Giuseppe Mazzini”. E i primi a bruciare per quel fuoco sono Giuditta e i suoi amici carbonari. La 27enne figlia di un magistrato milanese, vedova di un carbonaro emiliano, già madre di 4 figli, diventa la segretaria della rivista “Giovine Italia” con cui il movimento mazziniano prende a fare rapidamente proseliti, soprattutto in ambito militare. Il sottotitolo è già un programma: “Serie di scritti intorno alla condizione politica, morale e letteraria dell’Italia, tendenti alla sua rigenerazione”. A Giuditta, Mazzini affida gli statuti, i soldi dei primi finanziatori e le tante lettere che prende a scrivere con il nome di battaglia di Filippo Strozzi (l’inizio della fitta corrispondenza che porterà Mazzini a riempire una sessantina di tomi di missive e che sarebbero stati anche di più se una delle sorelle, non avesse deciso di distruggere le compromettenti lettere che Pippo scrisse a lungo alla madre, che tanto sostegno morale gli diede nel suo esilio, fino alla sua morte, nel 1852). Giuditta lo aiuta a stampare i manifesti politici che poi mescolano ai carichi dei marinai genovesi. Tra questi anche un giovane Giuseppe Garibaldi. Di lei Mazzini si fida ciecamente. E scopre di amarla, riamato. Il 4 luglio 1832, a Genova, viene scoperto il baule a doppio fondo usato per contrabbandare le riviste. Il governo sardo protesta e Mazzini riceve un decreto di sfratto dalla Francia. Tutti lo credono già in Svizzera ma lui si nasconde, a Marsiglia, in casa dell’amico Demostene Ollivier. Vi rimane chiuso per un anno. Esce solo rare volte, di notte, vestito da donna e da guardia nazionale. In questa segregazione, ad agosto, nasce in un alberghetto vicino Berna, Joseph Demosténé Adolph Aristide, figlio suo e di Giuditta. Per vederlo Mazzini si appropria del passaporto di uno dei Ruffini e scompare senza dire nulla a nessuno (la cosa viene presa a male, come una sorta di tradimento della loro fiducia, sia dai fratelli che dalla loro madre Eleonora Curlo, che Mazzini pure venerava come la sua, chiamandola “madre santa”, anche perché, al suo ritorno, Mazzini bruscamente rifiuterà di spiegare per quale “missione” quel passaporto gli era servito, aumentando i sospetti negli amici che infatti, nell’esilio di Londra finiranno per abbandonarlo). E intanto la Giovine Italia cresce: in Romagna con la Farina, in Toscana con Guerrazzi, in Campania con Poerio. E prende forma il primo piano insurrezionale dell’organizzazione, ormai diffusa massicciamente tra i militari piemontesi. Le micce si sarebbero dovute accendere a Torino, Alessandria e Genova, nel giugno 1833. Ma, in una rissa tra due soldati, il piano viene urlato ai quattro venti e la polizia sabauda già ad aprile arresta molti dei congiurati. Il 13 maggio viene arrestato Jacopo Ruffini. Rinchiuso nella torre grimaldina, a Genova, viene torturato ma non parla. Finirà dissanguato con la gola tagliata, si parlerà di suicidio. Nella cella una scritta fatta con il suo sangue, forse posticcia visto il tono terroristico: “Lascio la mia vendetta ai fratelli”. Finisce invece apertamente fucilato il 22 giugno, ad Alessandria, il 37enne avvocato Andrea Vochieri. Nella lettera che lascia alla moglie scrive: “Io muoio tranquillo perché vero e costante figlio della Giovine Italia”. Ma si contano anche altre 11 fucilazioni e 15 condanne a morte in contumacia, tra cui Mazzini. Per non essere arrestato, a luglio, Mazzini parte per Ginevra.  Lo seguono in Svizzera i reduci del ‘31 che, a Marsiglia, si riuniscono in casa di Giuditta e che sono diventati i primi mazziniani. Il 31enne Celeste Menotti, che a Modena aveva combattuto con il fratello Ciro, salvandosi poi con l’esilio (e che finirà poi a fare il commerciante a Genova). E sua sorella, la 33enne Virginia Pio Menotti, esule con la cognata, i nipoti ed i figli, che sprona gli esuli alla vendetta (“Non basta piangere, bisogna vendicarli”) e che nel 1846 ritroveremo, in Toscana, attiva sostenitrice della causa mazziniana (a lei Mazzini chiede oggetti per fare un mercatino a Londra per finanziare gli esuli italiani) e quindi, nell’aprile 1848, dopo le Cinque Giornate, di nuovo a Modena, per mettere sulla tomba del fratello una bandiera sulla quale ha scritto: “Quel giorno in cui morivi, assassinato da un tiranno, io giuravo di non più rivedere la Patria, che quando libera fosse dai manigoldi. Dopo 17 anni di lacrimevole esilio piacque a Dio onnipotente esaudire il mio voto, e qui sulla tomba ove tu dormi, dai buoni compianto, godo finalmente inalberato lo stendardo, che ti costò la vita”. Ma, tornato il duca di Modena, fuggirà a Firenze dove morirà nel 1858. Amico di Giuditta è anche il 29enne attore Gustavo Modena, che a Bologna è sceso dal palcoscenico per unirsi agli insorti – e che si prepara a far girare la testa ad una collegiale 16enne ginevrina,Giulia Calame, che si ribellerà alla famiglia per divenire sua moglie e compagna di tante battaglie mazziniane – ed i reggini carbonari Luigi Amedeo Melegari, 29 anni, e Giuseppe Lamberti, 32. Il primo sarà tra i firmatari nel 1835, a Berna, della “Giovine Europa” ma, dissociatosi, finirà senatore e diplomatico del regno d’Italia. Il secondo sarà mazziniano fino alla fine dei suoi giorni. E’ sua la minuta grafia che per 8 anni protocollò tutto ciò che la Giovine Italia cospirò tra il 1840 ed il 1848 ed è lui che è l’alter ego di Mazzini a Parigi e che tira le fila tra i repubblicani esuli in Europa e oltreoceano.

Con loro Giuditta ha vissuto nel 1831 l’insurrezione di Reggio Emilia, gettandosi a capofitto in una impresa patriottica nella quale ha tentato di dimenticare il dolore per la perdita, tre anni prima, di suo marito (Giovanni Sidoli, morto in un sanatorio in Provenza, possidente terriero carbonaro emiliano, esule dal 1821 in Svizzera) e la sottrazione alle sue cure dei loro quattro figlioletti – Maria, Elvira, Corinna, Achille, tre nati in esilio – da parte del suocero, che ha scacciato la nuora “ribelle”. Addolorata ma non prostrata, Giuditta risponde quindi alla chiamata del 33enne carbonaro Ciro Menotti, figlio di un ricco fabbricante di cappelli, che assicura come il duca di Modena Francesco IV sia diventato loro “fratello”, desideroso di liberarsi dal giogo austriaco. Giuditta di Francesco IV non si fida: dieci anni prima ha condannato a morte il marito e lo ha costretto all’esilio. Ha ragione: il duca – visto che non riesce a fare le scarpe a Carlo Alberto nella successione al trono del Regno di Sardegna -, ci ripensa e chiede aiuto all’Austria. Ma nel febbraio 1831 Giuditta accorre comunque. E’ lei che consegna la bandiera tricolore – ricamata da Liberata Ruscelloni, Bettina Ferrari, Vittoria Spagni – che gli insorti fanno sventolare sul palazzo del municipio, oggi conservata al Museo del Tricolore di Reggio Emilia. Intanto, anche a Modena, sventola un tricolore cucito da mani femminili: quelle della contessa Rosa Testi Rangoni, che per questo verrà condannata a tre anni di reclusione. E a Forlì, lo innalza Teresa Cattani, una popolana analfabeta di 24 anni, moglie del 31enne agricoltore e ardente patriota Vincenzo Scardi. Insieme al marito, il 5 febbraio, partecipa all’assalto del Palazzo del Governo. La Cronaca di Forlì ne riporta le gesta parlando delle donne che combattono in città: “Una delle più esaltate, che aveva già il proprio marito ingolfato nella mischia, e si vidde accorrere sulla Piazza, avente nella sinistra il vessillo tricolore, additando con la destra, e colla voce il sentiero a coloro, che la seguivano, indi cantava inni patriottici, che intuonavano la piazza stessa non solo, ma benanche tutte le radiali della medesima”. La cronaca riferisce che sia stata lei che issò il tricolore, forato da tre pallottole nemiche, sul balcone del legato pontificio. Quindi che, sempre con il vessillo in mano, su quale si legge “O libertà o morte”, si sia messa al comando di 54 forlivesi inquadrate come “soldati” nella colonna di 600 volontari accorsi da ogni parte della Romagna che, il 12 febbraio, marciò alla volta di Cesena. E’ che sia sempre lei che, il 22 marzo, con quello stesso vessillo, abbia guidato le sua “falange” di donne a Rimini. Tre giorni dopo la sua bandiera verrà strappata dagli austriaci che riconquistano la città. Il 9 marzo il duca di Modena era già rientrato a Modena. Il 17 marzo sceglie di fare una fine da carbonaro, cadendo sotto le pallottole austriache, a Forlì (nella villa carbonara chiamata Vendita dell’Amaranto, ex convento dei gesuiti di proprietà della famiglia del mazziniano Aurelio Saffi, sotto il cui maestoso cedro del Libano si ristorerà anche lo stesso Mazzini, nei suoi clandestini soggiorni italici), il 27enne Napoleone Luigi Bonaparte, il maggiore dei nipoti dell’imperatore francese (che se non  avesse scelto questa morte eroica avrebbe potuto diventare imperatore, visto che un anno dopo moriva il figlio di Napoleone, il duca di Reichstadt, 21enne per tisi e avrebbe magari risparmiato tanto spargimento di sangue affrettando l’unificazione italiana, a differenza di quanto farà lo scaltro fratello minore, il futuro Napoleone III). Quindi, il 26 maggio, a Modena, Ciro Menotti salirà sul patibolo. La mattina, all’alba, scrive una straziante lettera alla moglie Cecchina, che verrà consegnata alla vedova solo nel 1848, due anni dopo la morte del duca: “Non resterai che orbata di un corpo, che pure doveva soggiacere al suo fine, l’anima mia sarà teco unita per tutta l’eternità. Pensa ai figli e in essi continua a vedere il loro genitore: e quando saranno adulti dà loro a conoscere quanto io amavo la patria”. Così Ciro Menotti diventa l’ultimo martire della carboneria. In suo onore Garibaldi chiamerà il figlio Menotti (ma più originale sarà lo scrittore modenese e combattente garibaldino Taddeo Grandi che chiamerà una figlia Anita Garibaldi e due figli Giuseppe Mazzini e Ciro Menotti, quest’ultimo a sua volta genitore di un Giuseppe Garibaldi che morirà da capitano degli alpini in Russia, nella seconda guerra mondiale). Teresa Scardi e il marito finiranno esuli in Francia. Tornata poi a vivere nel forlivese, controllata dalla polizia, morirà nel 1850, a 43 anni, senza poter vedere il suo sogno di libertà avverarsi. La ricorda una canzone popolare: “La Scardi fu la prima/ che si mostrò guerriera/ portando la bandiera/ dei sacri tre color”.  Quindi, nel 1833, braccati tra Ginevra e Losanna, saranno proprio Gustavo Modena, Giovanni Ruffini (che nel 1848 finirà antimazziniano e deputato al Parlamento piemontese), Celeste Menotti e un suo compagno di lotta, l’ebreo modenese Angelo Usiglio (che seguirà Mazzini a Londra, fornendogli un passaporto falso grazie al rabbino di Livorno) a scuotere Mazzini dallo scoramento, dopo le morti e condanne seguite al fallimento della prima azione della Giovine Italia e a spingerlo ad organizzare una nuova impresa: una legione di 880 tra esuli polacchi, tedeschi ed italiani avrebbe fatto irruzione in Savoia dalla Svizzera. A comandarla il generale Gerolamo Ramorino, veterano delle guerre napoleoniche e dell’insurrezione polacca. Il tutto mentre a Genova il nuovo adepto, Giuseppe Garibaldi, nome di guerra Borel, che si era arruolato nella marina da guerra sarda per fare propaganda tra gli equipaggi, organizza una sollevazione. A Mazzini Ramorino non piace, a ragione. In poche settimane perde al gioco, a Parigi, i 40 mila franchi che Mazzini gli aveva consegnato. Cerca di rinviare la spedizione e infine, quando su insistenza di Mazzini entra in azione, la notte tra l’1 e il 2 febbraio 1834, si presenta al confine con un pugno di uomini e con la polizia già allertata dalle spie e ben presto i rivoltosi finiscono dispersi. Mazzini, dopo una settimana estenuante di preparativi, in cui aveva dormito “a quarti d’ora” addossato alla spalliera di una sedia, era divorato da una “febbre ardente” e in quella  notte freddissima camminava, “trasognato, battendo i denti”. Si è scordato di coprirsi meglio e Simone Pistrucci deve poggiargli un mantello sulle spalle, più volte chi gli è accanto lo deve sorreggere perché gli cedono le gambe. Finché, afferrata la carabina per entrare in azione, sviene. Si sveglierà in una caserma in Svizzera, circondato da soldati stranieri, con accanto Usiglio. I primi occhi che vede sono quelli pieni di apprensione di Lamberti. Melegari già riparato a Marsiglia insieme a Federico Campanella. Intanto Garibaldi, a Genova, si ritrova ad essere il solo rivoltoso in piazza, lo cercano per arrestarlo, diserta e fugge in America del Sud con una condanna a morte sulle spalle e diventa l’eroe dei due Mondi. Giuditta è ormai lontana. I rapporti si sono incrinati. La nostalgia dei figli lontani la annichilisce, il peso della missione cui si arrovella l’amato la schiaccia. In una lettera lei rinfaccerà a lui: “Ma è poi lecito per te, che ti poni in una sfera così elevata al di sopra della mia, di trattarmi così rigorosamente?”. E ancora: “Eccolo là, sempre quello, facitore di poesia”, “ma sfuggendo sempre alla realtà della terra”. A Ginevra, vicino a Mazzini, rimane per breve tempo. Nell’estate 1833 è in Francia, affida il figlioletto ad Ollivier e segretamente, in autunno, si imbarca per Livorno. D’intesa con Mazzini ha in conto di incontrare alcune delle “cellule” insurrezionaliste nella penisola – e infatti i due amanti restano in contatto epistolare – ma, in realtà, è decisa a riabbracciare i figli, a Reggio Emilia, dove sa che infuria il colera. Così, per lei, inizia quasi un ventennio di peregrinazioni. Subito è costretta a fermarsi a Firenze, braccata da un mandato di cattura. La polizia la sospetta. Ma sul suo passaporto falso c’è scritto Paolina Gèrard. Mazzini le scrive: “Le tue lettere appassionate, scritte in mezzo alla sventura, rappresentano per me un bene indicibile”, “ho bisogno di ricorrere al tuo ritratto, al tuo ritratto che diventa per me ogni giorno più caro e che mi pare si faccia ogni giorno più bello”. Nel febbraio 1834, il fallimento Savoia…. “Sognavo di morire e pensavo a te”, “ho coperto di baci il tuo medaglione. Tu sai ch’io ho sempre dei capelli sul cuore ma quello io l’avevo poco prima staccato e in che momenti, sapessi! Avevo perduto il tuo piccolo medaglione; qualcuno me l’aveva portato via, nei momenti della disfatta insieme con l’abito e un po’ di veleno che tenevo con me. Non ho potuto ritrovarlo che ieri. Tu non puoi comprendere quale presagio io atteneva a questo tuo ricordo. Se potessi averti qui! Se potessi abbracciarti, dormire, una sola volta, colla testa appoggiata sulle tue ginocchia!”. Ma intanto a Losanna, in casa Mandrot, fa strage di cuori tra le cinque figlie dell’ospite: la giovane Maria addirittura gli si dichiara, con Mazzini che resta ammutolito (illuderà la ragazza, che chiama nelle sue lettere La Maddalena, fino al suo esilio a Londra finché l’amico Melegari, che la ama a sua volta, rompe gli indugi – e inizia a rompere con lo stesso Mazzini – e la sposa). A Firenze Giuditta viene controllata dalla polizia ma frequenta i circoli liberali, diventa molto amica di Gino Capponi. A settembre viene espulsa: condotta a Livorno è imbarcata per Napoli. Mazzini segue i suoi spostamenti, lui rifugiato intanto a Berna, dove il 15 aprile 1835 sottoscrive l’Atto di fratellanza che dà vita alla associazione “Giovine Europa”, la santa alleanza dei popoli contrapposta a quella delle monarchie. La polizia intercetta le lettere appassionate che Pippo fa arrivare a quella che crede ancora la sua Giuditta. “E’ impossibile che io faccia un romanzo su di te. V’è troppa storia per me nell’amore che ti ho portato e in tutto quanto ho sentito per te”, “sorridimi sempre! E’ il solo sorriso che mi venga dalla vita” alcuni delle frasi che fanno sghignazzare i censori. Lettere traboccanti di amore e nostalgia, attraverso le quali Mazzini tace all’amata la devastante notizia, il 21 febbraio 1835, della morte di “A.”, il piccolo Adolph, all’età di tre anni (Giuditta lo saprà solo nel 1837, dalla madre di Mazzini, quando riuscirà a riabbracciare i figli in Italia). Vagamente accenna, ma senza dare adito ad eccessivi sospetti, alla gracilità del piccolo. Lettere nelle quali inizia anche a spirare la “tempesta del dubbio” che porterà Mazzini sull’orlo del suicidio, davanti al fallimento dei suoi progetti. Finita la rabbia per il fallimento del 1834 (scrive all’amico Rosales: “Il popolo e i capi-popolo hanno mancato. Che Dio fulmini loro e me prima!”) seguono tetri mesi di prostrazione. Nell’aprile 1835 scrive a Giuditta: “V’è tanta devastazione nella mia anima, che tu, se avessi potuto vederla tutta questa mia anima, come io te la recava quella notte quando tu mi dicesti: ah! resta, quando io ti diedi un bacio sulla testa, ti ritireresti oggi di spavento: era un amore la mia anima, era un bacio, era un profumo che io voleva versar tutto a’ tuoi piedi – ora è una rovina”. Forse proprio per questa devastazione, proprio da quell’aprile, abita in una stanzetta (oggi la museale “Camera Mazzini”) nello stabilimento termale di Bachtelen, a Grenchen, ai piedi del Giura, ospite del dottor Gerad, già bonapartista. Con lui i fratelli Agostino e Giovanni Ruffini. E le tre giovani figlie Gerard. Le ragazze fanno a gara per rassettare la sua stanza ed accudirlo. Si incantano a vederlo cantare e suonare con l’amata chitarra mesti canti popolari (quell’anno scrisse il saggio “Filosofia della musica”). Soprattutto la minore ne è rapita, come Pippo confessa alla madre, cui scrive almeno una volta alla settimana. “Dove sono ora, sono amata assai” le scrive a maggio, firmandosi per prudenza “Tua nipote Emilia”.  Solo che, quando se ne uscì con lapsus (“Cara zia, oggi mi sono fatto la barba”) la polizia iniziò a sospettare qualcosa (ma sarà arrestato a Soletta solo un anno dopo con i cittadini di Grenchen che gli conferiscono la cittadinanza onoraria per impedire l’espulsione, inutilmente). A Grenchen conosce George Sand che, reduce dal suo viaggio d’amore con De Musset in Italia, aveva deviato proprio per incontrarlo. C’è chi sostiene che l’intraprendente scrittrice, finito il suo amore con Chopin, avrebbe concesso le sue grazie al romantico rivoluzionario quando, nel 1848, Mazzini giunse nella Francia rivoluzionaria e si sia concesso un breve ritiro nella pace agreste di Nohant. Comunque le lettere che per alcuni anni, dopo di allora Mazzini e Sand si scambieranno, stanno ad attestare un solo amore comune: Byron. Intanto, a marzo 1835, da Napoli Giuditta ha raggiunto Roma. Interessa alla sua causa il segretario di stato vaticano. E prende anche contatti con un gruppo mazziniano. In esso c’è Michele Accursi, enigmatica figura di doppiogiochista, mazziniano e allo stesso tempo spia pontificia (che dal 1838 a Parigi, agente di Donizetti, smista anche la posta dei mazziniani che giunge all’insospettabile indirizzo del maestro). Finalmente riesce ad arrivare a Bologna, quindi a Modena riesce a riabbracciare i figli. E’ l’agosto 1836, non li vede da cinque anni. Ma viene subito acciuffata e condotta alla frontiera, quindi espulsa anche da Lucca, quindi raggiunge Genova dove incontra Maria Drago. La madre di Mazzini la accoglie con grande affetto. E l’anno dopo, Giuditta nuovamente espulsa, la accompagna a Parma, accettata dal regno di Maria Luisa d’Asburgo. Ed è Maria Drago che rimette in contatto il figlio, ora esule a Londra, con l’ancora amata Giuditta: “Ditele che io l’amo come l’amava; e il dileguarsi d’ogni speranza non mi toglie d’amarla” scrive, accennando al dolore per la morte del loro bambino: “Deve rassegnarsi, or più che mai ch’essa vede di tempo in tempo i suoi figli e può rovesciare sovr’essi tutto il suo amore”. E’ stato infatti permesso a Giuditta di recarsi a Reggio Emilia due volte all’anno per incontrare i figli. Smetteranno di scambiarsi anche le ultime lettere. Lo stesso Mazzini scrive all’amico comune Melegari, nel 1837, ormai esule a Londra, dopo l’espulsione perpetua dalla Svizzera e l’arresto a Parigi: “Non la vedrò mai più”, “da molto mi ha sacrificato al dovere, ai suoi figli e lo doveva, e io stesso ve l’ho esortata”. E un anno dopo, allo stesso Melegari, invia un misterioso  ringraziamento, forse per aver ricevuto i morbidi capelli del piccolo Adolphe: “Ti son grato davvero per la ciocca. La terrò sacra e terrò sacro il segreto”. Dal 1842 Giuditta, ormai morto il suocero ostile, riesce a tenere con sé i figli e li educa all’amore per la causa repubblicana. Solo nel 1849 rincontra Mazzini a Firenze. Lei vi si è rifugiata dopo l’occupazione austriaca di Parma. Lui è il triumviro in fuga dalla Repubblica romana. Avranno certo parlato di Achille, il figlio di Giuditta, che a Roma ha combattuto. L’amore ormai è spento. O meglio Mazzini ha rinunciato ad esso. Sul suo volto è calata l’espressione assorta e amara dell’Apostolo cui è impedito di vivere di semplici affetti. Tornata a Parma, con l’avvento del reazionario Carlo III di Borbone, Giuditta finisce nella lista dei sospetti da perseguitare. Il 1852 si apre con il suo arresto, a febbraio è in catene a Milano, isolata nella prigione di Santa Margherita. Ma qui il generale Ferencz Gyulai (lo stesso che nel 1859 finirà bloccato con le sue truppe nelle risaie della Lomellina e del Vercellese allagate dai piemontesi, senza accorgersi che Napoleone III puntava su Milano via Novara) si rifiutò di trattenerla. E, considerata cittadina svizzera, è tradotta in territorio elvetico. A fine 1852 Giuditta giunge a Torino, dove già vivono le figlie Corinna ed Elvira. Passano per il suo salotto importanti patrioti, come Francesco Crispi. E, nell’estate del 1856, anche Mazzini, che va cercando finanziamenti per l’impresa di Pisacane. Fu l’ ultima volta che i due ex amanti si incontreranno. Curiosamente poco lontana è la casa della di Rosa Vercellana, la Bela Rosin, la moglie morganatica di Vittorio Emanuele II. Nel 1868 Giuditta, colpita da dissesti finanziari e dalla morte della figlia Elvira, si ammala di tubercolosi. Il 28 marzo 1871, a 67 anni, morirà per una polmonite rifiutando i sacramenti religiosi, lei diceva di “credere liberamente nel Dio degli esuli e dei vinti”. Torino la ricorda con una targa posta sulla sua casa, in quella che oggi si chiama via Mazzini. Anni dopo Mazzini di Giuditta traccerà questo ritratto dal quale nulla traspare dell’antica passione: “Rara per purezza e costanza di principi, donna dalle passioni profonde, dal carattere estremamente indipendente e dalla fantasia vivissima”. Scriverà Galante Garrone che “quel senso scabro e desolato del dovere da compiere a prezzo d’ogni sacrificio traggono le loro origini anche dal misterioso legame con Giuditta, e dalla morte del bimbo. L’ombra di questi fatti si allungherà, non confessata ad alcuno, su tutta la vita di Mazzini”.

( Marina Greco )

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Mazzini e le donne del Movimento

LE DONNE DI MAZZINI / 1 – FEDELI SOTTO LA LANTERNA

(9Colonne) –

A 1.400 chilometri di distanza, a Londra, sua “seconda patria”, è l’Apostolo della libertà (anche se per la regina Vittoria sarà sempre uno “spietato apostolo dell’assassinio”), il dolce esule dagli alti principi morali, cui un ministro degli Interni deve presentare le scuse ufficiali per averne aperto le lettere cospirative (mettendo i Borbone sull’avviso e causando la morte dei fratelli Bandiera). E invece qui, nella sua Genova, nell’estate del 1857, il 52enne Giuseppe Mazzini deve infilarsi in un pagliericcio di foglie di mais, schiacciato in mezzo a due materassi, mentre le guardie frugano a più riprese nella casa del marchese Ernesto Pareto. Quel re, al quale vedrà quattro anni dopo il “fratello” Giuseppe Garibaldi consegnare il suo sogno di Italia unita, lo ha già condannato a morte due volte, in contumacia. E si prepara a farlo per la terza volta, con Cavour che lo accusa di essere il “capo di un’orda di feroci e fanatici assassini”.  Fonte: 9colonne [http://www.9colonne.it/adon.pl?act=doc&doc=28393#.VTzfuSHtmko]
E forse, mezzo soffocando in quel pagliericcio, l’ideologo si ritrova a  pensare se, a questo punto, non abbia visto giusto l’energico nizzardo a schierarsi giocoforza con il Piemonte sabaudo, quale unico “governo da cui possiamo sperare l’unità italiana”, come gli aveva scritto 4 anni prima. Quella lettera del 26 febbraio 1854, scrittagli da Garibaldi in occasione dell’ultimo loro incontro a Londra, nella quale il comandante dei Mille esponeva le stesse ragioni che stavano conducendo tanti altri democratici a distaccarsi dai progetti repubblicani della Giovine Italia per appoggiarsi alla corona sabauda, si chiudeva con un avvertimento che oggi, al Mazzini braccato, deve suonare profetica: “Diversamente credo che faremo un danno, in questi momenti solenni” (anche se poi Garibaldi chiosava con un “comunque poi vada bramo sempre rimanervi fratello”). E quel “diversamente” aveva infatti condotto alla fallita rivolta di Milano del 1853 ordita con Mazzini (che quindi rientra a Londra e fonda il Partito d’azione, che ha per motto “Cospirare per fare”), alla seguente mancata insurrezione in Lunigiana e all’arresto, nel 1854, del romagnolo Felice Orsini che doveva guidarla. E ancora ai fallimentari attentati a Napoleone III (progetti da cui comunque Mazzini si dissociò), compiuti prima dal calzolaio di Brisighella, Giovanni Pianori (nel 1855 spara all’imperatore due pistolettate senza ucciderlo) e poi dello stesso Orsini, ormai in rotta con “il Profeta Mazzini, sempre salvo per la semplice ragione che non si espone mai” (che, nel 1858, usa bombe piene di chiodi che fanno strage intorno alla carrozza di un illeso Bonaparte e finisce ghigliottinato). Una scia di fallimenti che si chiude ora con un Mazzini ricercato dopo la tragica impresa di Carlo Pisacane di conquista del Sud – l’ultima iniziativa rivoluzionaria in Italia, prima della seconda guerra di indipendenza -, finito massacrato con i suoi compagni, il 28 giugno 1857, a Sapri, mentre a Genova e Livorno si scatena una insurrezione durata solo poche ore, nella notte tra il 29 e il 30 giugno. A mezzanotte Mazzini era stato informato che il generale Durando aveva avuto una soffiata ed era in allerta. Incredibilmente, ad avvertire Mazzini, è la stessa persona che ha tradito. Mazzini dà il contrordine che però non riesce a fermare in tempo il gruppo di patrioti che, a Genova, si impadronisce del Forte Diamante dopo essersi fatto invitare ad una festa al suo interno (i congiurati erano riusciti a familiarizzare con le guardie, giocando con loro a pallone e suonando l’organetto per settimane). A Livorno, poi, i 300 insorti vengono presto sbaragliati dalle truppe granducali con la solita scia di arresti e condanne ai lavori forzati. Ma, in effetti, l’operazione non è mai stata un segreto negli ambienti della Genova democratica: da settimane, da quando Mazzini era giunto a maggio in città da Londra, ribolle di entusiasmo. E sono tanti gli amici che si stringono intorno a “Pippo” per coronare di successo l’impresa che, sperano, vedrà la sollevazione anti-borbonica del Sud ad opera dei mazziniani, battendo sul tempo Garibaldi che all’impresa dei Mille pensava ormai da anni. E tante sono anche le amiche presenti in quei giorni a Genova. A cominciare dalla battagliera Jessie White Mario che, già folgorata da un incontro a Nizza con Garibaldi, diventa nel 1856 a Londra una delle più ferventi sostenitrici di Mazzini (lo chiamerà il “Cristo del secolo”), smentendo la critica fatta da Felice Orsini al vate del Risorgimento che, nel suo esilio Oltremanica, si compiacesse delle attenzioni di un gruppo di donne solo “vane e pettegole”. Jessie con tutta la sua esuberanza (Mazzini la chiama “Hurricane Jessie” o “Miss Uragano”) entra a pieno titolo, cioè cospirando e raccogliendo fondi a favore della causa italiana, nel circolo femminile inglese che lo stesso barbuto genovese chiamava simpaticamente il suo “clan”. Nel maggio 1857 segue quindi il suo Apostolo a Genova, per preparare l’impresa di Pisacane. Abita nella stessa casa che ospita il ribelle ex ufficiale napoletano (che aveva già conosciuto da inviata in Italia per il “Daily News”), la sua compagna Enrichetta di Lorenzo (che per suo amore da 10 anni vive tra prigionia ed esilio, nella nostalgia dei tre figlioletti lasciati a Napoli presso il violento marito) e alla loro gracile figlioletta Silvia, di 4 anni. Enrichetta – unica donna presente nell’estremo summit avuto da Mazzini con Pisacane -, tenta inutilmente di dissuadere il compagno da guidare un piano che appare suicida (tanto che lo aveva rifiutato lo stesso Garibaldi) e che prevede di dirottare una nave di linea, liberare i prigionieri politici dell’isola Ponza, puntare su una Campania pronta a sollevarsi. Nell’ondata di arresti seguita invece al fallimento dell’impresa – mentre la barca carica di armi guidata da Rosolino Pilo si perde anche  in mare -, Jessie trova rifugio nel negozio del cappellaio Luigi Roggero, già luogo di raduno di storici mazziniani genovesi, come i fratelli ventenni Antonio e Carlo Mosto che gestivano una Società del tiro a segno che era in realtà luogo di addestramento per i patrioti e che, nel 1860, guideranno i carabinieri genovesi dei Mille, tra cui milita anche Stefano Canzio, marito di Teresita Garibaldi, terzogenita del generale e di Anita: i meglio addestrati, armati di carabine svizzere ultimo modello (il primo combatterà con Garibaldi fino a Monterotondo, il secondo morirà sul Volturno). Jessie verrà però arrestata e rinchiusa in carcere. In cella ritrova anche Alberto Mario, che aveva promosso una sottoscrizione per l’acquisto di 10mila fucili. La sua casa è stata uno dei tanti rifugi di Mazzini in quel ‘57 a Genova, insieme a quella dei fedeli Antonio Casareto e Felice Dagnino (il cui Caffé della Costanza era un altro ritrovo per i mazziniani). Mario sposerà Jessie pochi mesi dopo, in Inghilterra, entrambi espulsi dopo 4 mesi di prigionia. E sarà lei a raccogliere e tradurre in inglese il testamento politico di Pisacane. In quella estate del ’57, dunque, Mazzini riesce a sfuggire all’arresto nascondendosi appunto nel materasso del marchese Pareto, che viene arrestato per estorcergli inutilmente una confessione sull’introvabile nascondiglio dell’esule. Leggenda racconta che il giorno dopo l’arresto di Pareto, Mazzini sia riuscito ad eludere gli stretti controlli attorno alla villa del marchese tagliandosi la barba e fingendosi marito di una elegante signora e padre di una bella ragazza. I tre escono sorridenti dal cancello. Un disinvolto Mazzini offre persino un sigaro ad una guardia. La donna che Mazzini tiene a braccetto è la 56enne Bianca De Simoni, animatrice di un celebre salotto risorgimentale a Genova, instancabile promotrice di comitati di soccorso, fondatrice del collegio femminile delle Peschiere nel quale chiama ad insegnare il poeta Luigi Mercantini, autore dell’ode “La Spigolatrice di Sapri” dedicata a Pisacane e poco dopo dell’Inno di Garibaldi (“si scopron le tombe si levan i morti…”) che accompagnerà lo sbarco dei Mille facendo concorrenza al “Fratelli d’Italia” di Goffredo Mameli, l’eroe genovese morto nella difesa di Roma del 1849 che Bianca aveva conosciuto ed amato fin da quando era in fasce. Bianca è anche intima amica di Ernesta Manin, sorella di Daniele, anima della Repubblica veneziana del ‘48, che moriva proprio in quel ‘57 esule a Parigi, dove già il colera si era portato via la moglie Teresa Perissinotti e la figlia Emilia ed il cui figlio, Giorgio, sarà tra i Mille, ferito a Calatafimi. E Bianca è ancora amica del ruvido genovese Nino Bixio (tra i tanti genovesi mazziniani che abbandoneranno la causa dall’Apostolo) come del moderato Cavour, che lei ha conosciuto alla fine degli anni Venti nel salotto genovese della baronessa mazziniana Anna Schiaffino Giustiniani. Il futuro statista era un giovane tenente, la padrona di casa ne era diventata l’amante. Anche il marito dell’allora bellissima Bianca, il ricco banchiere genovese Lazzaro Rebizzo, aveva ceduto al fascino della inquieta nobildonna (che si suiciderà nel 1841, trentenne) e Bianca si rifarà poi legandosi di sincero affetto a Raffaele Rubattino, l’armatore genovese, amico di Cavour, che si lascerà “rubare” le navi – i primi piroscafi a vapore in Italia – per le missioni di Pisacane e quindi dei Mille e che alla morte di Bianca, nel 1869 (l’anno in cui acquista la baia di Assab, la prima base coloniale italiana), costruisce in sua memoria un grande monumento nel cimitero di Staglieno. La ragazza che accompagna Mazzini in quella pantomima fuori la villa del marchese Pareto è invece la figlia di Carlotta Benettini, Cristina. In casa della 45enne Carlotta, Pisacane ha tenuto l’ultima riunione notturna prima della partenza, insieme a 25 suoi compagni, ad ognuno dei quali consegna una pistola, un pugnale ed un berretto rosso. Carlotta, già arrestata 21enne, nel 1833, per la sua fede mazziniana (gli era stato trovato in casa un appello che incitava i genovesi alla rivolta contro Carlo Alberto), nel 1849 è salita sulle barricate di Genova insorta, accanto al figlio Carlo, poi è stata sempre in prima linea nell’aiutare, anche economicamente, gli esuli. Ora anche sua figlia ha la sua “prova del fuoco” patriottica aiutando la fuga del “Profeta”. La madre e la figlia nascondono Mazzini a Quarto. Poi entra in campo il console inglese a Genova per aprirgli la fuga verso Londra. Riescono a fuggire anche gli amici Rosolino Pilo, Antonio Casareto e Maurizio Quadrio, che aveva guidato l’insurrezione a Livorno. Il 28 marzo 1858 sono pronunciate le condanne a morte in contumacia per Mazzini, Antonio Mosto, Quadrio – che finisce a Londra a dirigere la rivista “Pensiero ed Azione” di Mazzini – e Casareto. Prima della sentenza, da Londra, Mazzini ammonisce: “Badate che a giudici italiani, i quali nel 1858 pronunziassero che gli italiani, che volevano morire o vivere con Pisacane per la libertà della Patria, meritano il patibolo e la galera, né Dio, né gli uomini perdoneranno”. Ma già l’anno dopo il re sabaudo, che si prepara a diventare re d’Italia, li amnistia. Intanto Cristina Benettini e suo marito, l’ingegnere Stefano Profumo, quello stesso anno finiscono esuli in Svizzera. Profumo sarà quindi in Sicilia nel 1860 e morirà a Napoli realizzando il primo acquedotto pubblico italiano. A Genova, in quei fervidi giorni che preparano l’impresa di Pisacane, c’è anche la 23enne Elena Casati. E’ ospite in casa di Carlotta. Conosce così la 22enne genovese Maria Alimonda, sposata al patriota Lorenzo Serafini. E Jessie White (nasce tra le due una grande amicizia che le vedrà nel 1880 unite nell’ultima battaglia di Elena (che morirà di polmonite due anni dopo) – la campagna per l’abolizione della prostituzione -, Elena ormai diventata una delle menti femminili dell’emancipazione italiana, già madre delle suffragiste e socialiste mantovane Ada e Beatriche Sacchi che, ad inizio ‘900, raccoglieranno il testimone delle sue battaglie sociali. Nata a Como da una famiglia di fede mazziniana, Elena ha 10 anni quando – calato il pugno di ferro del ritorno degli austriaci in città, dopo i moti del ‘48, orfana di padre, di fede liberale -, insieme alla madre Luisa Riva e alla sorelle Adele, Maria ed Alina, si mette sulle difficili strade dell’esilio: il Canton Ticino, Lione, Ginevra, Zurigo, Bruxelles. Strade che incrociano però i grandi esuli  mazziniani, ospiti in casa della madre: Aurelio Saffi, Maurizio Quadrio e ovviamente Mazzini che, nel 1854, per il 20.mo compleanno di Elena, le scrive una lettera: “L’onda del mare è salsa ed amara; il labbro rifugge dal dissetarsene. Ma quando il vento soffia sovr’essa e la solleva in alto nell’atmosfera, essa ricade dolce e fecondatrice. E la vita è come l’onda del mare: si spoglia dell’amaro che la invade levandosi in alto”. Ma il cuore di Elena vola già molto in alto, anche perché è innamorato. Se, dopo la morte della madre nel ‘55, si ribella al controllo dello zio tutore, a Como, e decide di andare a vivere da sola e di dedicarsi all’attività politica e poi di arrivare nel 1856 a Genova, dove sa che si va preparando l’impresa di Pisacane, lo fa anche perché spera di rincontrare Achille Sacchi, il giovane reduce dalla Repubblica romana che tre anni prima aveva conosciuto nell’esilio Zurigo. I due giovani si ritrovano ed è passione. Tanto che, nel 1858, Mazzini, per quanto anticlericale, dovrà convincere Elena a sposarsi con il rito cattolico per far cessare lo scandalo della libera convivenza di una coppia che, come nessun altra, sarà mazziniana. “Due corpi e un’anima” come dirà lo stesso Mazzini. Elena, come farà d’altronde anche Jessy White, cercherà di trovare l’impossibile intesa tra le imprese di Garibaldi e quelle di Mazzini. E’ tra le massime esperte della corrispondenza cifrata che il Maestro invia da Londra. Quella che utilizza i numeri romani per indicare il verso dal quale prendere la missiva e i numeri arabi per l’ordine delle lettere necessarie a leggere i messaggi nascosti in passi poetici, come un passaggio della Divina Commedia di Dante o dell’Orlando furioso. Nel 1861, di nuovo a Genova, di nuovo con Carlotta Benettini, Elena è l’anima del Comitato femminile per il fondo sacro per Roma e Venezia che ricerca finanziamenti per le due imprese di liberazione, ispirato dallo stesso Mazzini, che Carlotta ha accolto a Genova, l’anno prima, subito dopo la partenza di Garibaldi e dei Mille da Quarto. Inutilmente, da mesi, Mazzini ha cercato di convincere Garibaldi a porsi a capo di una spedizione nello Stato Pontificio. E i mazziniani della prima ora si sono quindi rifiutati di partire per la Sicilia perché Garibaldi non fa mistero di combattere per il re sabaudo. Quindi aderiscono all’estremo progetto di Mazzini di marciare su Napoli, passando da Roma, nella speranza di raccogliere i volontari che affluiscono nella seconda ondata di partenze alla volta del Sud da liberare. Vi aderiscono, con spirito antimonarchico, Quadrio, Saffi, Casareto (che, ironia della sorte, finirà, 67enne, per ricevere la nomina di cavaliere della Corona d’Italia). La spedizione verrà però fermata a Castel Pucci. Mazzini, accompagnato anche da Cattaneo, punterà quindi su Napoli dove a settembre Garibaldi è già arrivato trionfatore. Ma riesce a parlare con il Generale solo dopo una lunga anticamera e per soli dieci minuti e, il 12 ottobre, viene addirittura contestato nella pubblica piazza, facendolo sentire amaramente “esule in patria”. Tuttavia, armato della forza delle sue idee, Mazzini fonda il giornale “Il Popolo d’Italia” e pubblica il compendio di tutto il suo credo: “I doveri dell’uomo”. Poi il ritorno a Londra, la decisione di dedicare tutte le sue residue forze per la liberazione di Roma e Venezia. E utilizza proprio una donna, Adelaide Cairoli, madre di garibaldini uccisi, per la quale Garibaldi nutre una sconfinata ammirazione, per cercare di convincere l’eroe nizzardo a riprendere la lotta per liberare Roma. Mazzini scrive ad Adelaide: “Garibaldi promette ogni tanto al Paese di guidarlo: il Paese lo aspetta; ma non deluda, perdio, l’aspettazione…”.  Ma, nel 1862, al nuovo barco di Garibaldi in Sicilia, deciso a raggiungere Roma passando da Napoli, arriva per Garibaldi la fucilata sull’Aspromonte. E l’ormai vecchio Mazzini si butta quindi su un’altra battaglia, tutta ideologica, quella contro il socialismo. Nel 1864, alla riunione della Prima Internazionale a Londra, Mazzini manda un osservatore ed è subito grade gelo con Marx. Non a caso Mazzini invita quello stesso anno Bakunin a conoscere le condizioni dei lavoratori liguri e lombardi e chiede ad Elena Casati di accompagnarlo. Intanto lei, instancabile finanziatrice, insieme al marito, delle imprese di Mazzini come di Garibaldi, nel 1866, definitivamente di casa a Mantova – malgrado la numerosa prole, partorirà 14 figli -, si dedica con entusiasmo al nuovo progetto mazziniano, l’Alleanza Repubblicana, con la quale, sullo sfondo della terza guerra di indipendenza, Mazzini rincorre ancora il suo sogno di conquista di Roma, simbolo assoluto della sua idea di Italia unita e repubblicana. Spentasi l’ultima speranza dopo la fallimentare campagna romana garibaldina, un 65enne e malato Mazzini, il 23 agosto 1870, arriva a Genova con un falso passaporto inglese. Si fa chiamare John Brown, si nasconde in casa di Giacomo Vivaldi. E’ convinto – così gli hanno assicurato -, che a Palermo lo attende un comitato rivoluzionario pronto ad insorgere al suo arrivo. E invece le spie – tra cui una stessa che gli procura il passaggio in nave -, hanno preparato nel porto siciliano un diverso comitato di accoglienza. Ancor prima di scendere dalla nave, il 14 agosto, lo arresta Giacomo Medici, diventato prefetto del Regno in Sicilia, sposato ad una nobile inglese, presto nominato marchese del Vascello per nomina reale. Solo la storia non scritta può immaginare cosa si siano potuti dire Mazzini e l’ex garibaldino. Si erano conosciuti per la prima volta trent’anni prima a Londra. Entrambi esuli: Mazzini, 36enne, fondatore della Giovine Italia e Medici, 23enne esule da Milano che si preparava, andando in Uruguay, a diventare il più fedele tra i garibaldini. Mazzini e Medici si erano ritrovati poi sotto le bombe francesi nella Repubblica romana del 1849: il primo triumviro, il secondo estremo difensore della villa sul Gianicolo.  Si erano fronteggiati alle elezioni del 1866: Mazzini era stato eletto deputato nel collegio di Messina sconfiggendo a schiacciante maggioranza proprio Medici, che però gli era subentrato nella carica perché il Parlamento italiano aveva annullato l’elezione di Mazzini, prendendo a pretesto le sue condanne. L’anno dopo un’amnistia permette a Mazzini di riprendersi la nomina ma stavolta l’esule rifiuta, anche perché  non intende giurare sullo Statuto albertino. Ora Medici fa scortare Mazzini nella fortezza di Gaeta. A portargli conforto in cella accorre Carlotta Benettini. Due mesi dopo una amnistia libera Mazzini che però esce di cella affranto: non vuole quella “grazia” dal Re sabaudo. Si tratta infatti del “regalo” che il Regno d’Italia concede ai condannati politici per “festeggiare” la presa di Roma. La conquista che il fondatore della Giovine Italia aveva sognato per tutta la vita. Ma che si avvera non come l’aveva sognata. Ed infatti il motto cavouriano del “Libera Chiesa in libero Stato” professato da Cavour già a gennaio è disatteso, con la legge delle guarentigie. Mazzini passa per Roma prima di ritornare a Londra. E fonda “La Roma del Popolo”, lo slogan del suo sogno perduto. Un anno dopo ritorna in Italia per morirvi. Ma già la memoria della sua presenza a Genova andava perdendosi. Tre anni dopo la morte del Profeta, infatti, si decide di creare un museo nella sua casa natale. Ma nessuno ricorda con precisione dove è ubicata e viene quindi eretta una targa su di un palazzo nelle vicinanze. E’ la 63enne Carlotta che interviene per indicare l’abitazione di via strada Lomellini. Un comitato impiega 6 anni per raccogliere le 16mila lire necessarie all’acquisto dell’abitazione. Seguendo quindi la descrizione data da Carlotta, che da bambina, a 7 anni, era entrata nella camera in cui Mazzini piangeva nel 1805, avvolto in fasce da neonato, si scopre che è finita inspiegabilmente murata. E a colpi di martello, abbattendo dei tramezzi, si ritrova la stanza in cui aveva visto la luce il Padre della Patria. E nacque così una delle prime case museo in Italia, poi sede dell’Istituto Mazziniano.

( Marina Greco )

(© 9Colonne – citare la fonte)

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