Sono numerose le biografie su Mazzini, ed altrettanto numerose sono quelle che cominciano ammettendo una certa qual ineffabilità del personaggio, sia in politica che in filosofia. Ancor più sfuggente è il critico d’arte e, nascostissimo dalle molteplici vesti, finalmente, l’artista: che è l’immagine pubblica probabilmente più vicina all’uomo. Per verificare se vi sia o no legittimazione nel sostenere che oltre al compassato Mazzini scolastico, imbalsamato nella posa carducciana de “l’uomo che mai non rise”, è sufficiente scorrere l’indice dei nomi delle biografie principali. Fate la prova: all’interno di nessuna di queste troverete i nomi di Helena Petrovna Blavatsky, di John Yarker, di Elifas Levi, di René Guénon che pure ebbero (i primi tre contemporanei, l’ultimo fonte novecentesca), grande rilievo per lo sviluppo del pensiero mazziniano. Questo viaggio di introspezione è il percorso tentato con il MAZZINI OCCULTO, con inquadrature che vanno dalla sfera intima degli affetti privati alla sua centralità nel panorama esoterico dell’Ottocento. Chi vuol esaminare una prospettiva inusuale per avere una lettura molto distante dagli stereotipi – ma non per questo meno fondata e documentata – troverà nella fonte indicata molti spunti e importanti approfondimenti. Tra questi, non secondario il ruolo che la musica, in specie, la canzone accompagnata dalla chitarra, ebbero per la vita sociale di Mazzini, specialmente negli anni dell’esilio in Svizzera e poi in Inghilterra, dov’è legittimo immaginare un uso politico della chitarra. Custodita oggi nella casa-museo di Genova, la chitarra è una “Fabbricatore”, liutaio napoletano molto apprezzato nell’Ottocento. Di testi e spartiti autografi di Mazzini, purtroppo non rimane che “Il canto delle mandriane di Berna”, una nenia che egli adattò come canto di nostalgia per la donna più amata, tormentata dalle difficoltà dell’esilio e che qui si presenta con titolo, tratto dal primo verso del testo “Perduto Fior”.
Un altro brano, che non è possibile attribuire con certezza a Mazzini ma che di certo egli dovette conoscere, è il “Canto dei Carbonari”, altrimenti noto come “La bella che guarda il mare”, allegoria dell’Italia che, prigioniera, vuol liberarsi. Anche qui, l’immagine del donna “con tre colori in testa”, fa pensare proprio alla donna più amata da Mazzini, Giuditta Bellerio, che portò il tricolore durante i giorni della rivoluzione a Reggio Emilio, dove ancora si conserva presso il museo civico come prima bandiera italiana.