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Parole nel vento. Dei rapporti tra Mazzini e Garibaldi.
di Davide C. Crimi*
Dei rapporti tra Mazzini e Garibaldi non so dire. Le lettere di Garibaldi, scritte di suo pugno, quelle per i discorsi pronunciati in giro per le città d’Italia dopo l’unificazione, quelle sì, le ho viste. M’è venuto il magone, sai, quel nodo alla gola che ti prende quando avverti il peso insostenibile della differenza tra quel che avrebbe potuto essere e quel ch’è stato. Non so come dire, davvero. Mi viene in mente ciò che accadde tra Federico II e Pier delle Vigne, altra era, altri luoghi, altre persone, ma la stessa intensità dei fatti, con ancor più atroce senso e realtà della tragedia, altra pagina che avrebbe potuto fare della Sicilia e del Sud dell’Italia il vero centro d’Europa e del Mediterraneo, e che invece è annegata nel sangue. Giureconsulto, Pier delle Vigne, sapete, aveva preparato per l’Imperatore Federico una riforma delle terre che, dopo la reconquista agli arabi, erano finite nella proprietà di un manipolo di aristocratici così poco numeroso da contarsi sulle dita di una mano. Tutti fedelissimi alla Chiesa, s’intende. E quando Pier redasse quel libro, il Codex Augustalis per la riforma della proprietà terriera, allora cominciarono i complotti. Si fece intendere all’Imperatore che Pier delle Vigne tramasse contro di lui, per chissà quali fini innominabili. All’inizio era un nonnulla, ma via via che la possibilità per Federico di unificare la Corona di Sicilia con l’intero sud-Italia e persino poter aspirare alla corona di Germania, lo Stato Pontificio ne trasse un terror panico di rimaner schiacciato nella morsa di cotanto nuovo Impero. Così, l’indebolimento del regno di Federico divenne un affare internazionale, e Pier delle Vigne la vittima sacrificale. Dante, testimone non lontano dagli eventi, pone Pier all’inferno, sì; ma come suicida – e non come traditore, come dice il distico: Vi giuro che giammai non ruppi fede / Al mio signor, che fu d’ onor sì degno.
Allo stesso modo, lasciate ch’io dica: tutta la rabbia, il livore che Garibaldi mette nelle sue lettere e nei suoi discorsi pubblici mi fan pensare a un crescere, un montare di istigazioni contro quello che fu il suo maggior sodale. Li hanno messi contro. Né si deve pensare che si andasse poi così tanto per il sottile, se solo si ricorda che è a Cavour che s’attribuisce che la parola mafia significhi, per quanto appaia ridicolo, Mazzini Autorizza Furti Incendi Assassinii. Così, a Giuseppe Garibaldi si volle far apparire lo spettro diafano di un Mazzini preso dalla sua vanità, in contesa con la gloria ricevuta nelle Americhe dal soldato in giubba rossa. Ecco la falsa immagine di Mazzini che manipolatori interessati forgiarono: un cospiratore sempre pronto a sminuire il valore dei suoi collaboratori, solo per innalzare sé stesso a maggior gloria. Così, di fronte alla vanità delle cose, non resiste la qualità degli ideali, la volontà di riscatto e, ancora una volta, la disaggregazione del latifondo e il sistema di riforme annunciato per il Sud (si comprenderà meglio adesso il parallelismo con Federico II e Pier delle Vigne, senza dimenticare che la storia del latifondo arriva al nostro ieri, con l’assassinio di Placido Rizzotto). L’ideale costretto a rimanere utopia dalle forze oscurantiste. Era questo il progetto di Mazzini: educazione e istruzione per aprire a tutti la porta dello spirito. Ma tutto cade, di fronte alla vanità del potere personale o anche soltanto, come in questo affaire, dinanzi alle istigazioni velenose dei ciambellani.
Nel dir questo non dovremo cadere in un vano psicologizzare, nel tentativo stolto di voler attribuire pensieri a menti ormai lontane e insondabili. Potremo però evocare scene e quadri a tinte forti, significativi specchi per noi che viviamo condizionati dalle forme del potere e della politica del nostro tempo, ch’è fatto d’immagini vane e frante. Se osassimo, vedremmo quanto lontano è il sogno siderale che infiammò gli animi nell’ora che precede il successo, quando Mazzini e Garibaldi erano uniti nell’ideale di combattere ogni tirannia, ovunque fosse nel mondo, e ad essi facevano corona gli spiriti forti dell’epoca, come Madame Blavatski – la famosa chiaroveggente che con loro combatté nella battaglia di Mentana, dove subirono il famoso scacco per la presa di Roma – o John Yarker, il filosofo rosacrociano cui si devono gli accordi sottili che precedettero lo sbarco dei Mille. E ancora, delle donne mirabili – Giuditta Sidoli, Arethusa Milner, Jesse Mario – che combatterono insieme a questi uomini in nome di un ideale di emancipazione e di cui oggi, ahimé, non resta che il drappo sbiadito. L’ultima immagine infranta è forse quella di Che Guevara, che come loro s’illuse di combattere per la libertà, e non s’accorse d’aver favorito l’insediamento al potere di un nuovo tiranno. O forse, infine, dovremmo trasporre tutto in modernità e pensare alla lotta non violenta, l’ Ahimsa di Mahatma Gandhi o ancora, in ultimo e ancor più fragile respiro, per i limiti e le imperfezioni dell’animo umano, alla contestazione del Free Speech Movement in California, ai sit-in di Allen Ginzberg, alle canzoni di Joan Baez. Ma anche questo blowing in the wind non è più nel vento di oggi, come la libertà, l’emancipazione e la vita spirituale non sono mai stati attuali, ma forze eccezionali che il mondo contrasta, combatte, sopprime.
A Voi, Signore e Signori, dimenticare. O far vivere il ricordo e gli ideali.
Massoneria, mafia e oscurantismo
Secondo alcuni stereotipi molto frequenti, massoneria, mafia e oscurantismo sono pressoché sinonimi. Il vero problema è che questa affermazione spesso ha margini di dolorosa verità. Il mito della massoneria come istituzione apportatrice di progresso risulta sempre meno credibile anche se, per comprendere le ragioni di questo deterioramento, bisognerebbe conoscere un po’ di storia massonica.
Tornando all’attualità, questo è l’incipit di un articolo apparso su Sicilia Informazioni il 5 Marzo 2016 a firma di Alberto Di Pisa: “Di un progetto stragistico riferisce, all’udienza del 30 giugno 1999 davanti la Corte di Assise di Firenze, nel processo per la strage dei Georgofili, Gioacchino Pennino, uomo politico della Dc ma anche uomo d’onore e massone. Nella sua deposizione parla in particolare della presenza della massoneria all’interno delle istituzioni siciliane riferendo di relazioni tra la criminalità calabrese e siciliana istaurate proprio per mezzo della massoneria.”
L’articolo non è banale e invitiamo alla lettura integrale; tuttavia, si presta all’immediato manifestarsi dell’immagine stereotipa massoneria=potere occulto, senza alcuna distinzione tra quel ch’è stata la nobile Tradizione Massonica e la sua deriva (nel lessico latomistico: degenerescenza) che ha trasformato questa istituzione da laboratorio per il progresso in vestibolo del peggior oscurantismo. Il protocollo di unificazione tra GOI e GLRI (voluto dagli inglesi ma solo falsamente accolto da Bisi e Venzi in Italia, vedi articolo “Cosa succede nella Massoneria italiana“) va esattamente a confermare questa unità di intendimenti oscurantisti dei dissimulati nemici del popolo.
Per comprendere quel che qui viene detto, occorrerebbe che il Lettore fosse nella capacità di discernere tra “Antichi” e “Moderni”: ne consegue che dovremo accettare l’assoluta impossibilità di andare oltre in assenza di queste informazioni.
La citazione dell’articolo con cui abbiamo aperto questa riflessione è testimonianza dell’assoluto fallimento dell’istituzione massonica come strumento di progresso (e possiamo aggiungere che la supremazia del rito scozzese ne è la più evidente testimonianza, sebbene saranno in pochi a comprendere le ragioni di questa affermazione).
In ogni caso, siamo consapevoli dell’insegnamento dell’insuperato teorico dei mezzi di comunicazione di massa, Marshall Mac Luhan, per cui il media è il contenuto e, pertanto, nessun contenuto iniziatico autentico può passare attraverso i social network (ci dispiace molto per gli innumerevoli pretesi maestri che bighellonano su facebook) e, pertanto, la vera entità di quanto qui detto non potrà essere compresa che da pochi, invisibili e incogniti.